Passo tutti i giorni da piazza Fontana. Lo so dovrei parlare d’altro in questa rubrica, disquisire di filosofia, approfondire ed esaminare gli antri più reconditi della speculazione, giungendo nelle lande inesplorate del pensiero. Ma passo tutti i giorni da piazza Fontana. Spunta lì, girato l’angolo, sulla strada verso l’università, appena passato il Duomo. Ed è un colpo al cuore. Un fendente che infierisce su una ferita ancora fresca. Mai rimarginata del tutto. Banca Nazionale dell’Agricoltura. E’ una scritta austera, che tradisce l’anima conservatrice dell’istituto, in caratteri bianchi e spartani, appoggiata su di un muro di granito grigio. Quasi anonimo. Bastano quattro parole per trasalire, per far riemergere un dolo che non si può dissolvere. Banca Nazionale dell’Agricoltura. Lo sussurro di nuovo tra me e me e tiro dritto. Non è sempre così. Capita che il mio percorso subisca una deviazione e, spinto dalla voglia di ricordare ( o forse sarebbe meglio dire dalla voglia di non dimenticare), mi ritrovi davanti a quelle lapidi e alle corone di fiori secchi. Sono sempre secche. Faccio sempre in modo di non fermarmi nelle immediate vicinanze dell’anniversario. Sarebbe troppo doloroso pensare a quegli smemorati cronici che hanno un giorno ed uno solo per ricordare. Opportunisti della ricorrenza, la celebrano senza appartenenza, né passione. Per costoro una strage non è che una frase da scrivere, da postare in qualche social network prima che tutto torni ad essere fagocitato dall’oblio. Quando sono lì è tutto così assurdo. Così grottesco. Sono l’unico a considerarla un mausoleo. Un monumento alla democrazia tradita, all’umanità usurpata nella sua essenza più profonda. Per tutti gli altri non è che un mero luogo di passaggio. La via per il lavoro, la scuola, il centro. Nessuna importanza. Nessun ricordo. Come se non fosse mai accaduta nulla. Non c’è memoria di nulla nella società globalizzata. Né compassione o sensibilità verso il dolore. Né, tantomeno, tempo per ricordare. Il ricordo è bandito, appiattiti, come si è, sul presente, abbagliati da un delirio egocentrico assoluto e senza soluzioni. Immersi nel fiume degli eventi, oberati dai fatti propri, ripiegati sul proprio io si volta la faccia a ciò che è stato e, di conseguenza, all’altro. Fate pure, dunque, voi, inseguite i vostri sogni, le farneticazioni del vostro ego, perseguite il vostro futuro solipsista. Io mi fermo qui. Solo un attimo. Nel mio giardino privato ad onorare le mie tragedie. A commemorare i miei caduti. Sedetevi, se vi pare. C’è posto.
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Uomini, donne, bambini. Non hanno nomi, non hanno volto. Sono cadaveri, morti, torce accese spenti dall’acqua. Il dramma di Lampedusa è l’ultimo di una lunga, silenziosa e dimenticata strage di innocenti che avviene settimana dopo settimana sulle nostre coste. Migranti, clandestini, immigrati, rifugiati: ognuno li chiami come meglio preferisce, ma sempre essere umani sono, persone che sfuggono dalla miseria e dalla guerra con la speranza di trovare altrove fortuna e che vedono nell’Italia il passaggio necessario verso nuove terre.
Uomini che sfuggono dal Male ma che trovano sulla propria strada il Male; i criminali identificati come scafisti, gente che tratta i propri simili come delle bestie, animali senza nessuna dignità e che vengono mandati al macello. Bastonate per abbondare le carrette del mare, perché non sono navi quelle, dopo un viaggio che ha il prezzo di tutti i risparmi accantonati.
E noi italiani siamo qua, con gli abitanti di Lampedusa e delle altre coste abbandonati al proprio destino. E’ una emergenza politica, è una priorità umanitaria, perché la legge dell’uomo vieta di proibire i primi soccorsi. E’ un problema di tutti i governi europei, sebbene sia più facile voltare le spalle e fare finta che nulla sia accaduto gravando l’Italia di un compito immane. E c’è chi soffia sul fuoco. No, queste stragi non possono essere dimenticate, il Male va combattuto. L’indifferenza è un tarlo, una malattia che si insinua lentamente e ti distrugge la pietas, il sentimento umano più profondo. Soccorrere è un obbligo, aiutare un dovere, combattere questa piaga un compito politico di tutti, perché è assurdo morire così, in mezzo al mare. Non è da uomini.
La tua squadra del cuore è in finale. Tu con lei. Sogni di alzare al cielo la Coppa dei Campioni, tu accanto al tuo capitano. Vuoi esserci, ti organizzi, chiami a raccolta gli amici e i familiari, gli stessi con cui condividi la passione, in qualche modo riesci ad avere in mano i biglietti. Sarai in finale, anche tu. Non vedi l’ora che arrivi quel giorno, la data sul calendario è cerchiata in rosso: 29 maggio. E’ il 1985, il Boss canta Glory Days e tu ti auguri che quella sera sia davvero gloriosa, di goduria allo stato puro.
Il countdown è finito, il grande giorno è arrivato. Sei a Bruxelles, hai girato per le vie della città, hai conosciuto altri animati come te dalla stessa passione, ma ora si entra allo stadio. Un impianto vecchio, fatiscente, criticato: come fa una Finale a essere disputata in un posto del genere? Però, chissenefrega, sarà una bella e vincente serata, almeno si spera. Hai il biglietto nel settore Z, prendi posto e ti accorgi che qualcosa non va: sei accanto ai tifosi del Liverpool, separato da loro da due bassi reti metalliche. Lo sai che non godono di buona fame, ti ricordi quanto avvenuto a Roma l’anno prima ,ma pensi che saranno anche loro qui solo per godersi la partita.
No, invece no. Un’ora prima del calcio d’inizio, gli hooligan caricano, vogliono invadere il tuo settore. Non ci vuole molto, speri e credi nell’intervento della polizia. Hai paura, una fottuta paura, stanno arrivando. Scappi, come tutti, il più lontano dagli inglesi. E però c’è un muro. Ci ammassiamo tutti lì? No, dai, è impossibile. Cerchiamo di andare in campo, è l’unica. Andiamo via da lì. Cosa fanno i poliziotti? Ci manganellano?? Ma questi sono pazzi! Non hai molto tempo per ragionare, l’istinto ti suggerisce la mossa da fare: ritornare verso quel muro, scavalcare e rifugiarsi nell’altro settore. Chiuso in un angolo- Da un lato la furia pazza degli hooligan, dall’altro la totale impreparazione e scarsa intelligenza di chi dovrebbe aiutarti. Ormai è ressa, si è tutti lì. Non hai nemmeno il tempo di accorgerti che da qualche parti perdi sangue. Vedi alcuni che saltano nel vuoto. Poi un tonfo, un rumore sordo. Il muro è crollato. Cazzo, è la fine del mondo.
Non sai nemmeno come hai fatto, ma sei sul campo. Lì dove i tuoi campioni avrebbero giocato. Perché è per quello che sei andato a Bruxelles quel 29 maggio del 1985. Ora vedi morte, disperazione, rabbia, smarrimento attorno a te. Tu ce l’hai fatta, ringrazi Dio, ma tanti altri no. In 39 muoiono, 39 uomini che condividevano la tua stessa passione, 39 famiglie che da ora saranno in lutto per sempre.
Sono passati 28 anni, allo stadio ci vai ancora, la tua squadra ha appena vinto il secondo campionato consecutivo. Sei contento, ovviamente, ma una parte di te è morta all’Heysel, è rimasta lì. Non avevi mai conosciuto il Male. Ci pensi spesso, ci pensi sempre quando sul calendario è di nuovo il 29 maggio. E non riesci a sopportare quei maledetti ignoranti che pensano di insultare la tua squadra con scritte sull’Heysel, con cori e striscioni vergognosi. Calpestano la memoria, offendono le famiglie, gli amici. La vostra passione dovrebbe essere la stessa, è una tragedia che dovrebbe accomunare tutti, invece qualcuno la usa per offendere. Ti fa male, ma non dimentichi l’Heysel, i 39 morti. Non lo farai mai.