Il corpo umano è un guanto senza cuciture, fatto per adattarsi ad ogni forma e dimensione, sa farsi piccolo e grande, tondo o quadro, smentendo ogni proverbio popolare sulla staticità ineluttabile della geometria nell’ atto di vivere.
Così si diventa flessibili se il mercato lo chiede, ci si vende al migliore offerente, ci si adatta per sopravvivere.
Non voglio raccontare storie di precariato giovanile, voglio raccontare invece del posto fisso e riflettere su come l’esistenza del lavoro precario danneggi indirettamente anche chi un contratto a tempo indeterminato ce l’ha.
Questa è la storia di G., una storia come tante.
G. ha un impiego relativamente buono, dopo i 6 mesi di stage Post Lauream ottiene un contratto a tempo indeterminato, l’area d’impiego è quella per cui ha studiato; lo stipendio è onesto e gli permette, soprattutto, a soli 28 anni, l’affitto di una camera singola dopo anni di convivenze forzate in una stanza per due.
Quando G. viene a sapere del contratto a tempo indeterminato non ha voglia però di brindare ma di piangere, perché forse quell’impiego, seppur attinente al suo titolo di studio, seppur dignitosamente retribuito, per una vita intera non vuole proprio mantenerlo.
Tutto questo però non si può dire ad alta voce ma solo pensarlo, e neppure troppo spesso, perché sua madre è disoccupata, il suo migliore amico in cassa integrazione da una vita.
Come ho detto, accade che il precariato logori chi non ce l’ha, gli impedisca di trovare il guanto perfetto, quello che calzi senza forzature, gli inibisca il desiderio, tradendo tutto quello che ci viene insegnato fin dall’asilo, per il timore di chiedere troppo, di peccar d’ingratitudine.
Prima a scuola poi all’Università ci instillano la sete di sapere, la brama di crescere; prima di istruirci su come i Romani costruirono l’Impero ci trasmettono, e non sempre con successo, la curiosità; poi la vita ti insegna a contrattare, ad essere diplomatico, fino a correre il rischio di barattare il posto fisso con un’anima precaria, un’anima senza desideri, un passo instabile e rassegnato di chi non sa dove vuole andare e neppure si interroga a tal proposito.
Se dovessi onorare il clichè della canzone generazionale da canticchiare sotto l’ombrellone, comporrei così:
“Siamo la generazione dall’Anima precaria,
siamo Incastrabili, saziabili, debitori di promesse,
e arrabbiati ci crogioliamo al sole caldo
di un paese in cui, se è difficile andare avanti,
figuriamoci tornare indietro.”
Ma, per fortuna, non sono un cantautore.