Il più grande problema da affrontare quando si parla di Philip Ó Ceallaigh (se escludiamo il fatto che ancora non ho capito come si pronunci il suo cognome) è che scrive molto meno di quanto vorrei. E questo, se vogliamo, è un indizio abbastanza significativo del fatto che Philip Ó Ceallaigh sia davvero bravo in quello che fa: scrivere racconti.
Dice che il romanzo non gli interessa e a noi va benissimo così. Abbiamo dovuto attendere la lungimiranza e il fiuto dei ragazzi di Racconti Edizioni per fare arrivare questo scrittore fin da noi e l’attesa, pur se lunga, ha pagato i suoi frutti. Il precendete “Appunti da un bordello turco” era stato uno dei libri più interessanti letti nel 2017 e devo dire che ho atteso con impazienza l’uscita di nuovo materiale per capire in che direzione lo scrittore stesse andando. Per avere un punto di riferimento più preciso.
I racconti contenuti nella raccolta “La mia guerra segreta” arrivano dopo molti anni dall’uscita dei precedenti, il ritmo della scrittura di Philip Ó Ceallaigh è rallentato ulteriormente, ma la qualità degli scritti è aumentata in maniera esponenziale. I racconti, ora brevi, ora più lunghi, quasi a sfiorare la novella, sono carichi di elementi che contraddistinguono la scrittura di Ó Ceallaigh. In primo luogo l’ironia, un’ironia che lo scrittore applica anche alla fede, ma in particolare ad un certo tipo di fede che sfocia nelle filosofie arrabattate, costruite a tavolino. Epica è la sua parodia del libro “L’alchimista”. Un racconto lungo in cui, tutto ciò che lo scrittore ha dovuto fare, è stato spostare un po’ più su l’asticella dell’assurdo.
In “Cantico dei cantici” questa ironia e il gusto per l’assurdo diventa, se possibile, ancora più marcato. Il protagonista, quando si eccita sessualmente, si alza da terra. La narrazione è inframmezzata da frammenti poetici presi dal Cantico e l’effetto è spiazzante.
Un altro elemento ricorrente, e non poteva essere altrimenti vista la biografia di Philip Ó Ceallaigh, ha a che fare con il viaggio. Un viaggio che può essere sia una necessità di scoperta sia un allontanamento. Che può portare ad una meta imprevista e può seguire percorsi altrettanto improvvisati. “In un altro paese” è un viaggio verso una scoperta, quell’impossibilità di creare artificialmente le proprie radici, quella sensazione di essere sempre fuori posto, sempre il diverso, anche quando si sta facendo qualcosa di buono. Quell’idea che potresti andartene e non aver avuto il minimo impatto sul luogo in cui sei stato, essere passato senza lasciare un segno nelle persone perché loro, le persona, lo sapevano molto prima di te che te ne saresti andato. E qualcuno che è destinato ad andarsene non è mai completamente dove crede di essere.
Un’ultima parola la spendo sul racconto “La mia guerra segreta“. Ancora una volta la narrazione viene dominata dall’assurdo e dal contrasto tra ciò che è reale e ciò che è irreale. Seguiamo le vicende di un uomo che viene incarcerato per un motivo che non conosce e che gli verrà spiegato solo in parte e su questa incarcerazione verrà costruita una vita felice in cui lui crede di essere solo una pedina, una pedina felice. Davvero un racconto riuscito.
La scrittura di Philip Ó Ceallaigh è misurata, mai sopra le righe, sempre attenta alla parola e al ritmo. Lo scrittore irlandese padroneggia bene sia i toni cupi, come la malinonia, sia quelli luminosi, l’ironia tra tutti. Leggere “La mia guerra segreta” è stato davvero un piacere, aspettare che arrivi una terza raccolta lo sarà un po’ meno, ma sono convinto che ne varrà, ancora una volta, la pena.
Come nel primo libro anche questa volta la traduzione viene affidata a Stefano Friani, una delle anime della casa editrice romana.