Se questa fosse una rivista “seria”, chi vi scrive ora vi starebbe parlando dell’ultimo libro uscito, quello che magari, ora, proprio in questo momento, è finito nelle migliori librerie (ma anche nei supermercati e negli autogrill). Oppure, vi staremmo decantando le lodi di tutta la produzione letteraria dello scrittore deceduto alla veneranda età di novantacinque anni proprio mentre stavate leggendo “Chi” e “Novella 3000”.
Purtroppo, chi vi scrive, fa un lavoro diverso, non trae sostentamento economico da questo sito, trae energia ed entusiasmo, che aiutano a vivere meglio, ma non pagano le bollette.
La premessa era dovuta visto che sto per parlarvi di un libro che è uscito qualche anno fa e che, mi risulta, potreste anche trovare tra i remainders.
Il libro in questione è appunto uscito nell’Aprile del 2006 ed era, almeno per me, passato inosservato. Per fortuna, qualcuno me l’ha proposto e quindi l’ho potuto leggere. E con mio enorme piacere l’ho trovata una lettura interessante ed istruttiva che mi ha permesso di mettere il calcio (ebbene sì, si parla di calcio) nella giusta prospettiva.
Ora, se vi siete incuriositi vi dico che il libro in questione ha in effetti un titolo, che io trovo leggermente fuorviante. Fortunatamente ci pensa il sottotitolo a mettere le cose bene in chiaro.
“Baghdad Football Club – La tragedia del calcio nell’Iraq di Saddam”, edito da ISBN edizioni (sì, sempre loro, non è colpa mia se hanno molte perle nel loro catalogo, prendetevela con loro) e, come si evince tratta il tema del calcio calato in una realtà che ci è distante e che spesso ci è stata spiegata male e pure con un pizzico di malafede.
A leggere questo libro, un lettore qualsiasi, smette di preoccuparsi di schemi, numeri di maglia, ingaggi esorbitanti e inizia a riflettere su cosa il calcio possa significare per quei paesi in cui il regime dittatoriale impone uno stile di vita basato sulla privazione della libertà, sullo svilimento della persona e sul renderla una semplice proprietà del dittatore.
Il cattivo, in questo caso, non è Saddam, come il sottotitolo potrebbe far intendere e come giustamente l’influenza mediatica ci porterebbe a pensare. Qui, il vero male ha il nome di Uday, figlio di Saddam, che prende sotto di sé il giocattolo calcistico e lo trasforma in una macchina per far soldi. No, non si tratta di una collaudata macchina di marketing che possa far aumentare gli introiti, magari attraverso la vendita di magliette, di gadget e dei diritti televisivi. Uday sfruttava il calcio (ma non solamente il calcio) per interessi personali. Gestiva i trasferimenti dei calciatori nella squadra di sua proprietà, faceva pressione sugli arbitri per convincerli a far vincere e perdere le squadre sulle quali scommetteva, dava il permesso ai giocatori di giocare all’estero solo se questi ultimi versavano metà dello stipendio nelle sue tasche.
Ma, soprattutto, torturava.
Già, perché Uday, oltre ad essere corrotto era pure un pazzo sadico, in grado di far torturare i calciatori per un pareggio (a volte scegliendo i malcapitati casualmente), farli frustare con dei cavi elettrici, tenerli rinchiusi in stanze talmente piccole che per riposare dovevano darsi il turno. Il tutto per soddisfare la sua bramosia di potere e tenere sotto scacco lo sport di un intero paese.
Il libro scritto dal giornalista inglese Simon Freeman ci presenta una carrellata di personaggi tra cui l’allenatore tedesco Stange chiamato a risollevare le sorti della nazionale irachena e la vecchia gloria del calcio Ammo Baba che nega clamorosamente di essere stato privilegiato dal regime Uday e continua a ripetere si essere povero ma amato dalla gente, entrambi sembrano sempre sospesi nell’ambito dell’incredulità. Non si riesce mai a comprendere fino in fondo cosa di quello che affermano sia millantato credito e cosa sia reale. La cosa a volte fa sorridere, ma da comunque una precisa indicazione di quale sia lo spirito che percorreva (e ci auguriamo sia una cosa del passato) il calcio iracheno. Un enorme calderone bollente in cui tutti erano corrotti, tutti millantavano, tutti cercavano di fare le scarpe al proprio vicino per riuscire a ottenerne guadagno e, in considerazione di Uday, di sopravvivere. Sullo sfondo dell’opera gli americani. Le loro promesse non mantenute, i ritratti forniti all’estero che non corrispondono a verità, i goffi tentativi di risollevare il sistema calcio per utilizzarlo come macchina di propaganda politica. Purtroppo per gli iracheni, anche dopo la caduta del regime Saddam e l’uccisione di Uday, le cose hanno mantenuto una bruttissima piega. In parte per quella che lo scrittore dichiara essere una formae mentis ormai acquisita durante gli anni della dittatura in cui solo chi violava le regole sopravviveva, in parte perché la restaurazione dello sport è capitata nelle mani di chi, anche sotto Uday, aveva incarichi di prestigio.
Consiglio questo libro a tutti quelli che abbiano voglia di farsi un’idea diversa su come possa essere il calcio al di fuori dei nostri confini e in terre desolate e martoriate dai regimi dittatoriali. E’ una visione nuova in cui gli sponsor, le bizze dei calciatori, gli agenti e, in generale, gli interessi economici, passano in secondo piano. In cui il fulcro sarebbe un bambino a piedi scalzi che corre dietro ad un pallone, se solo quel pallone ce lo avesse e se solo il fatto di correre per le strade non fosse pericoloso.
Un piccolo ed ultimo appunto. Si verrebbe portati a credere, dalla descrizione fornita dal libro, che il fulcro narrativo sia la violenza che Uday perpetrava nei confronti degli atleti. In realtà, se siete lettori che cercano la morbosità nella lettura rimarrete assai delusi. Non ci sono descrizioni particolareggiate di queste violenze, non c’è spargimento di sangue gratuito come quello che potreste incontrare in un film di Bruce Willis, ogni riferimento ai metodi selvaggi adottati da Uday per tenere sotto controllo il suo business è funzionale al racconto di Simon Freeman, che, bisogna dirlo, ha fatto un buon lavoro .