Dal 1854 al 2014 di acqua sotto i ponti ne è passata. La tecnologia si è evoluta anno dopo anno, cambiando anche i rapporti umani, ostaggi, ormai, dei vari social network. Ma oggi, non vogliamo parlare del solito grattacapo, bensì delle buone maniere che, una buona parte di persone ha perso. Molti uomini e altrettante donne, negli ultimi anni, hanno perso il gusto di discutere, di scambiarsi idee proprio per la mancanza delle buone maniere. Anni fa, almeno fino ai primi anni ’90, questa spiacevole situazione non figurava nemmeno nei pensieri del più pessimista. Vi erano più conoscenze vere, meno esibizionismo e quelle caratteristiche che, con la società odierna, stonano tanto. Oggi, invece, notiamo come durante una cenetta romantica (ipotizziamo) la luce dei cellulari vince su un dialogo tra due persone, perché la notifica, la news del sito preferito è più importante di una risata, di un ragionamento. Si sono persi quei valori che faranno fatica a immagazzinarsi nuovamente nella mente di una persona in virtù di una crescita imponente di una diversità di vedute sempre più evidente tra tutti. Anche per una semplice chiamata non c’è più tempo, non c’è più quella voglia di ascoltare un’altra persona dall’altra parte della cornetta- Tutto questo ha causato un calo dell’8% circa dei dialoghi telefonici. Non sono solo Facebook, Twitter e altri social ad aver cambiato il nostro modo di vivere, pensare, ma la nostra mentalità, a questo punto errata sotto tutti i punti di vista.
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abitudini
Vi devo confessare che spesso sono stato tacciato di essere malato della sindrome di Peter Pan. Prevalentemente da ex fidanzate che hanno tentato invano di staccarmi dalle sale giochi (prima) e dalla Playstation (poi). La frase più comune che mi capitava di sentire in quei frangenti era: non sei abbastanza maturo per stare con me. Come se, smettere di giocare significasse essere maturo. E allora perché non smettere di sognare, non smettere di vestire con abiti colorati, non smettere di guardare un telefilm che amiamo, non smettere di chiacchierare con il proprio migliore amico d’infanzia?
In realtà, e questo non riuscivano a capirlo, non è il problema fosse nei giochi che facevo o nei sogni ad occhi aperti, il problema stava semplicemente nel fatto che non avevo abbastanza voglia di cambiare le mie abitudini per la persona con cui stavo in quel momento. Non ne valeva la pena.
Eppure, io su questa storia della sindrome di Peter Pan (d’ora in poi SPP) c’ho riflettuto spesso a partire proprio dalle lamentele delle mie ex ragazze. Come si prendeva questa sindrome? Era una malattia? Era contagiosa? Si poteva curare nel caso uno lo volesse?
Se poi chiedevi aiuto agli altri, non c’era nessuno che riuscisse a spiegarti in maniera esaustiva di cosa si parlasse quando si parlava di SPP. Ma allora, se nessuno sapeva bene cos’era, come si poteva contrastarla o anche solo capirla? Certo, ovviamente tutti ti portano l’esempio del personaggio al quale la sindrome si ispira, quel benedetto ragazzino Peter Pan che si rifiutava di crescere. Ma a me sembrava un po’ pochino, non mi piaceva, mi sembrava come se ad un bambino che ti chiede il perché di una cosa tu rispondi: perché è così.
La sindrome per me non sta nel voler rimanere giovani a tutti i costi, ma nel pensare che qualcosa di magico possa succedere sempre e che l’evento stia dietro l’angolo ad aspettarci, solo che noi non sappiamo quale sia l’angolo.