“Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!”. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?”
Roberta ha sottoposto criticamente alla sua attenzione il dire nietzscheano, perché ritiene folgorante ogni pensiero di un filosofo venuto col preciso intento di ‘rovesciare’ quegli ‘idoli’ che gli uomini stringono a sé con ferocia per non sentir la terra tremare sotto i loro piedi.
E questo passaggio, contenuto nell’aforisma 341 de “La gaia scienza”, ci permette di confermare ciò che lo stesso Nietzsche asserisce ne “Ecce homo”: lo “Zarathustra non è solo il libro più alto che esista, ma anche il più profondo, generato dalla sua più intrinseca ricchezza di verità”.
Qualunque sia il significato della dottrina dell’eterno ritorno di tutte le cose, qui anticipata da Nietzsche, questa ci apre ad un’ampia riflessione su quello che è il senso che scegliamo di dare alla nostra vita.
Sì, perché la vita è scelta e selezione.
Non c’è atto che non sia scelta. Di conseguenza, anche scegliere di non scegliere, il non agire, l’inerzia decisionale su cui tanto insiste Kierkegaard, implicano il dare una direzione al proprio agire.
Probabilmente, così facendo, avremo accolto, tra le opzioni a nostra disposizione, la più facile, la più comoda, quella che implica per noi meno dispendio di energie. O, semplicemente, quella che ci sembra in maggiore conformità con il nostro vivere, con le scelte che abbiamo precedentemente preso.
Ma, tornando al paradigma nietzscheano, dal momento che il senso dell’essere sta nell’essere, dobbiamo vivere ogni istante della nostra vita donandogli quel senso che gli appartiene e che lo rende unico e, solo in questa prospettiva filosofica, ripetibile.
“Come mi sentirei io quindi se”, si chiede Roberta, “tutte le cose che sono state tornassero a me identicamente infinite volte?”
Forse si sentirebbe sopraffatta da questi momenti, probabilmente non ne reggerebbe il peso.
O, piuttosto, le accoglierebbe nel suo presente recuperandone quella carica, positiva o negativa, che le rende un’ancora valida equazione algebrica funzione della sua vita?
Se anche gli attori del proprio palcoscenico, le impalcature su cui si reggono le fondamenta della propria esistenza, sono stati frutto d’un personale ed intenso faticare, ci si trasformerebbe in creature ‘ridenti’ se li si riaccogliesse senza lasciarsi scalfire.
“L’uomo deve avere, e di tempo in tempo impiegare, la forza di infrangere e di dissolvere un passato per poter rivivere: egli ottiene ciò traendo quel passato innanzi a un tribunale, interrogandolo minuziosamente e, alla fine condannandolo.
Non è la giustizia che siede qui a giudizio; ancor meno è la clemenza che pronuncia qui il giudizio: ma soltanto la vita, quella forza oscura, impellente, insaziabilmente avida di se stessa.”, dice sempre il nostro Nietzsche, nelle “Considerazioni inattuali”.
Ma quindi in che rapporto ci dobbiamo collocare rispetto al nostro passato?
Di certo non è utile tracciare il proprio percorso utilizzando come modello ciò che è stato, né guardare a quel passato con un amore che offusca ogni capacità di crear storia nuova, ma è questo così facile da metter in atto?
Se potrebbe risultare spaventoso il ritorno di tutte le cose, altrettanto terrificante sarebbe, per qualcuno, la possibilità di tagliare ogni collegamento col proprio passato.
Collegamento rintracciabile in fotografie, scritte, ricordi.
La perdita di memoria atterrisce e mette in crisi il più spavaldo tra gli apparenti superficiali.
Ahimè, la nostra Roberta, è convinta che senza l’eco dei passi che ha percorso in passato, non sarebbe in grado di guardare a nessun domani.
Perché, se anche occorre scappare il più lontano possibile e volgere lo sguardo al di là del proprio ieri, come suggerisce Alessandro Baricco: “Un pretesto per tornare bisogna sempre lasciarselo dietro, quando si parte.”
Affermazione che corrisponde, in qualche modo, a seminare molliche di pane per esser certi di poter tornare, quando si vuole, dove si ha lasciato il cuore.