Ho già letto due volte questo libro di cui sto per raccontare. Confermo che è una nuova “chicca”, come giustamente me l’ha presentata il suo editore Cicorivolta, del quale l’esperienza mi ha insegnato a fidarmi.
“Tutto ciò che vi resta” è stato scritto da un uomo protagonista come tanti per sua sfortuna, dell’infinito conflitto israelo-palestinese, e allora quando scopri che una mente di tale sensibilità e talento artistico, viene violentemente privata della possibilità di continuare a produrre opere di questa levatura, bisognerebbe imbestialirsi. Il modo migliore per farlo è parlare, parlare ai quattro venti di questo suo scritto, invitare a leggerlo e andare alla ricerca spasmodica degli altri.
Ghassan, insegnante, scrittore ed intellettuale arabo-palestinese, nasce nel 1936 e vive quindi dall’origine le vicende fondanti di questa guerra mai risolta, prima da spettatore per ovvie ragioni, poi da militante. La vita gli lascia segni pesanti e profondi, fino al più drammatico e incancellabile. In questo suo romanzo, dalla stupenda copertina e dalla struttura accattivante che lui stesso ci illustra nella nota introduttiva, ci riporta un episodio di vita familiare, comune, brevissimo per due aspetti. L’episodio occupa ventiquattro ore, a cavallo di due giornate, e la storia si sviluppa in poco meno di cento pagine.
La prima cosa che vi stupirà sarà la quantità di considerazioni, spunti di riflessione, frasi, parole, espressioni, sentimenti e gesti carichi tutti di potenza, che questo breve tragitto custodisce in sé.
Cinque sono anche i personaggi, nel senso che anche per ciò che riguarda questo aspetto l’autore bada all’essenziale, cinque personaggi di cui solo tre davvero reali, umani, vivi. Gli altri due sono realtà personificate, sono il Tempo e il Deserto. Fantastici. Ve ne innamorerete. Per quanto riguarda gli spazi ancora più essenziali: il deserto stesso, e una casa.
Venendo alla storia, due fratelli, maschio e femmina, fuggiti a suo tempo da Jaffa perdendo nel trambusto la madre poi rifugiatasi in Giordania, si ritrovano a vivere a Gaza con una zia. Niente di tanto strano se vogliamo, in una realtà come già detto segnata da eventi bellici incredibili, ma quando succede uno dei fatti più normali del mondo, in uno dei paesi probabilmente meno normali del mondo, e tra persone legate profondamente ad usi e costumi di antica memoria, fare l’amore, e concepire pure un figlio, può diventare un grosso problema.
Le vite dei fratelli Maryana e Hamid, e del futuro cognato Zakaria subiscono uno scossone fortissimo, si separano, un po’ per scelta e un po’ no. Hamid intraprende quella che verrà definita “la marcia della morte” e la sorella, pur non muovendosi, vive la stessa marcia triste, oppressiva, angosciante, precisamente scandita. Zakaria, definito giustamente “il porco”, è colui che forse più degli altri attesta la grande capacità dell’autore nel rendere al meglio i personaggi, il loro carattere, i loro gesti. Così come stupendo è il linguaggio lirico che pervade tutto il romanzo, in lungo e in largo. E’ resa in modo eccezionale l’atmosfera del deserto, “personaggio” determinante, ma meglio rappresentato di tutti è il Tempo, l’ultimo dei cinque personaggi, esso che ha sempre l’ultima parola su tutto e tutti.
E sono le ultime anche queste mie parole. C’è molto, molto altro come accennavo all’inizio, da dire, ma leggete Ghassan, è meglio. Scoprirete la forza di Maryana (una donna naturalmente), la rabbia e la debolezza di Hamid, la pochezza di Zakaria.
Grazie a Cicorivolta e a Emanuela Capobianco per la traduzione. Buona lettura.