Penso al “Salone internazionale del libro di Torino” e penso che avere dell’entusiasmo in questo ambiente è quasi controproducente. Ho alcuni amici che mi prendono in giro perché, a dir loro, sono uno che ancora “ci crede”. Qualsiasi cosa intendano con quel “ci crede”, vi posso assicurare che più passa il tempo e più l’idea (sempre di uno di loro) di farmi una T-shirt con su scritto “Prova a crederci adesso!” mi alletta sempre di più.
Esternamente sembra che nel mondo dell’editoria tutti si vogliano bene. O almeno questa è l’idea che ti fai a quindici o sedici anni quando inizi a frequentare le biblioteche e a raccogliere dagli scaffali i grandi classici e i contemporanei pubblicati dalle solite sorelle forti.
Poi scopri che c’è una cosa chiamata “editoria indipendente“, che ha dei contorni abbastanza frastagliati, di cui alcuni non ammettono nemmeno la bontà dell’etichetta, ma che, esternamente, sembra far fronte comune contro lo strapotere dei grandi editori. Per quelli come me a cui piacevano le commediole in cui i perdenti alla fine rovesciavano i bulli questa dicotomia ha sempre rivestito un certo fascino. A chi non piace veder vincere i perdenti e soccombere gli arroganti?
Purtroppo, a mano a mano che ti inoltri in questo ambiente capisci che nemmeno in questo caso sono possibili i fronti comuni. All’inizio c’è un po’ di tristezza, poi passi avanti.
E’ notizia di questi giorni che l’AIE ha deciso di spostare il Salone del Libro di Torino a Milano. La questione va approfondita ulteriormente, ma a quanto sembra Torino organizzerà comunque un suo salone mentre a Milano sarà attivata un’altra iniziativa. Pare quasi che le cose funzionino per partenogenesi. L’AIE (Associazione Italiana Editori) non è rappresentativa di tutti gli editori italiani e, nella questione dello spostamento del salone, ha agito in tempi brevi e senza le dovute consultazione. Inoltre non ha nemmeno dato il via ad uno spazio per confrontare le idee degli editori italiani. Questo secondo alcuni editori indipendenti, questo è comunque quello che si raccoglie dai commenti sui social che, evidentemente, spesso arrivano prima dei comunicati stampa e delle interviste. A me sembra una decisione molto italiana, presa dall’alto e subita a cascata. Senza una vera e propria intenzione di risolvere i problemi strutturali di una manifestazione e di un settore. Lindau si è dissociata dalla decisione dell’AIE mentre E/O in un comunicato ha espresso la volontà di uscire dall’associazione. L’AIE era già un fronte ristretto e ora perderà inevitabilmente altri pezzi. Suppongo che di questo passo rimarranno solo quelle figure che già comandano e spostano.
La critica più frequente che ho sentito è quella che definisce la decisione di spostare il salone come un favore a quelle case editrici che detengono già la maggioranza delle quote di mercato e hanno le mani anche sulla catena distributiva. Accentrando il potere si soffocano le resistenze. Se vogliamo buttarla giù in maniera romantica, le piccole case editrici ora saranno costrette ad agire in incognito, darsi alla latitanza, colpire e nascondersi. Poi viene da pensare che la resistenza ha sconfitto la morte nera, ma non è sempre così che finisce.
Io (e vi prego di considerare la mia scarsa importanza all’interno della catena editoriale) avevo già l’impressione che il Salone del libro di Torino avesse un occhio di riguardo nei confronti della grande editoria. La centralità degli spazi espositivi di Mondadori, Feltrinelli, Einaudi etc etc mi aveva colpito fin dal primo anno in cui avevo messo piede a Torino. Mi era sembrato inutile mettere in risalto la posizione di quelle case editrici che avrebbero avuto comunque pubblico (leggi clienti) anche se posizionate dentro i bagni. Mi sembrava più sensato aumentare la visibilità di quelle case editrici che devono lottare tutto l’anno per uno spicchio di sole.
Poi, diciamocelo, la questione della lettura non ha nulla a che fare con quella del salone o dei saloni. Chi va ai salone è spesso uno che già legge, è spesso uno che sa già dove andare a parare e che conosce gli stand espositivi come fossero la sua camera da letto. Le iniziative per incentivare la lettura dovrebbero essere proposte durante tutto l’arco dell’anno e dovrebbero essere indirizzate anche alle scuole. Coltivare l’amore per la lettura è, prima di tutto, un problema culturale. Insegnare a leggere e a godere di questo privilegio è una questione che va affrontata fin da piccoli e che deve essere seguita passo passo fino ai diciotto anni, come minimo. Non dovrebbero essere i genitori a spiegare ai figli l’inutilità del tempo perso a leggere. Dovrebbero essere i figli ad insegnare ai genitori quanto possa essere appagante la lettura di un buon libro.
Detto questo, il Salone, ovunque si faccia, è un’operazione commerciale. Un’occasione che, se ben sfruttata, permette alle piccole case editrici di vendere alcune centinaia di copie e di tirare una boccata d’aria. Però anche in questo caso c’è qualcosa che stona. Il Salone non può essere semplicemente visto come un sussidio all’editoria. Ti faccio pagare un posto nel nostro spazio perché qui ci saranno talmente tante persone a visitare Einaudi che magari qualcuno di loro sbagliando strada arriva al tuo stand e compra qualcosa. Il salone dovrebbe essere una tappa intermedia nel percorso di arricchimento culturale di ogni singolo individuo. Ci vado perché siccome sono un lettore voglio capire cosa mi manca per essere un lettore consapevole. Anche leggere necessità di abilità, abilità che acquisti con l’esperienza e attraverso continue cadute. Proprio come se andassi con lo skateboard.
In definitiva (cerco di chiudere, spero vogliate perdonare il mio terribile sproloquio senza fine), lo spostamento del salone da Torino a Milano è, ai miei occhi, una perdita di tempo. Significa creare un problema in più. Spostare qualcosa con dei problemi da sistemare da Torino a Milano non li risolverà. Si è svolta una battaglia politica a spese di una fetta di editoria importante e bistrattata. Che si vada a Caltanissetta, Perugia, Dosson di Casier, ai grandi editori importa poco o nulla. Io avrei mantenuto la sede dove stava, perché non credo sia un problema di sede, e avrei cercato di ripensare gli spazi e gli eventi. Avrei cercato di spremere il massimo da Torino possibilmente senza poi farmi arrestare.
Ora che succede? Avremo due manifestazioni letterarie? E gli operatori forti? Le agenzie stampa? Gli agenti internazionali? Il pubblico? Chi sarà privilegiato? Chi avrà grandissima visibilità sugli organi di comunicazione perché sede scelta dall’AIE o chi dovrà fare a spallate perché ormai abbandonata? Avremo, a Milano, oltre a Bellissima e Bookpride (e anche in questo caso ce ne sarebbe da dire) un’altra manifestazione? Che poi, non si tratta nemmeno di Milano, ma Rho. Evidentemente parlare di Milano ha un appeal maggiore.
E Torino farà la parte del dissidente? Di chi non si arrende? In fin dei conti la decisione è passata con 17 voti favorevoli su 32. Un ottimo scenario se si vuole pensare ad una profonda spaccatura nell’AIE. E Roma? Più libri più liberi va bene così o la dobbiamo spostare a Pistoia? Facciamo che spostiamo a Rimini il Pisabook? Spostare il parlamento a Genova non credo risolverebbe tutti i problemi che abbiamo perché ad uno spostamento fisico non corrisponderebbe uno spostamento di persone ed idee. Soprattutto le idee, dovunque le metti stanno, ma se sono idee di merda…