This is the end. Questa storia inizia dalla fine. Il 1 maggio del 1994, Ayrton Senna morì a 34 anni, fatale e letale fu un terribile incidente in quel di Imola. Che cosa sia stato quel tragico weekend è difficile da spiegare: è come se la nuvoletta di Fantozzi si fosse trasformata in un gigantesco uragano, una tempesta in grado di spezzare automobili e con esse le vite di chi le guidava. Sabato, il giorno delle libere, veloce come un missile va a sbattere contro un muro Roland Ratzenberger, un carneade della Formula 1. Muore quasi sul colpo, l’impatto, ma soprattutto la forte decelerazione, gli spezzano la base cranica.
Splendeva il sole in quel weekend, ma regnava la pioggia. Sembrava dovesse piovere per sempre. Ratzenberger esce nella curva intitolata a Gilles Villeneuve – ironia della sorte? -, ovvero il pilota più amato dagli appassionati di auto. Gilles era il James Dean dell’automobilismo, Ratzenberger un buon pilota che aveva coronato il suo sogno (era al terzo Gp), Senna era Senna. Ayrton aveva conquistato per tre volte il titolo di Campione del Mondo, era semplicemente il più bravo, il più forte di tutti. Fenomenale sull’asciutto, un dio imbattibile sul bagnato, nel sangue di Senna scorreva la velocità.
Era un’altra epoca, era una Formula 1 pura, genuina, non computerizzata. Senna per me, allora undicenne, rappresentava davvero una divinità. Non si poteva credere alla sua morte, Dio non può morire. Invece sì, gli errori umani e la sorte possono essere attori tragici in grado di rompere una vita e far crollare sogni. E’ stato il primo incontro con il nostro destino, anche per questo non mi è possibile dimenticare Ayrton Senna, il più grande di sempre.