Di tanto in tanto si sente dire che mai come oggi la parola, quella scritta in particolare, ha avuto tanto spazio e tanta importanza nella vita delle persone. Poi, quando ti capita sotto gli occhi un libro di poesia, allora capisci che si riferiscono al tocuch screen e soprattutto cosa si dovrebbe intendere per centralità della parola. E’ lì,“nell’epoca di un caos che nomina tutto”, che “la parola non finge ma si schianta sulla pagina”. Lo scrive Nicola Vacca nel suo prezioso Vite colme di versi, un invito ragionato alla poesia novecentesca tessuto intorno alle figure di una ventina di poeti, metà italiani metà stranieri, alcuni celebri altri meno, tutti accomunati dalla ricerca della solitudine come salvacondotto per purezza e autenticità. Lontani da mode e consorterie, nemici di omologazione, regole e morale di massa, offerti al lettore su un piatto dalla prosa ben tornita, i poeti di Vite colme di versi ci ricordano che, a differenza della narrazione, la poesia si pone sempre un compito.
L’attenzione di Vacca verso gli irregolari ci porta a comprendere che l’essenza stessa della poesia è proprio l’anomalia, lo scarto, la devianza, dal linguaggio comune, dalla vita comune, dal sentire comune, e la scrittura, secondo la lezione di Carlo Bo, è esercizio preliminare finalizzato a disporre l’anima al puro ascolto della voce indescrivibile dell’essere. Lì arrivano i poeti di Vite colme.
Perché la verità è sempre in pericolo, quando l’uomo non è capace di scolpire il cuore vivo sulla roccia del divenire
Questi uomini ancora capaci di scolpire il cuore vivo sulla roccia sono proprio loro, i poeti, scelti da Vacca secondo una logica profonda che delinea una mappa cartografica e antropologica allo stesso tempo: i dodici poeti italiani provengono da un’area geografica ben precisa, quella dell’Italia centro-meridionale, da sempre terra di docg poetico che ha prodotto, da Campanella a Leopardi passando per Giordano Bruno, una lirica sospesa tra aneliti gnomico-orfici e istanze filosofico-speculative. Non a caso, dopo Caproni, Bigongiari e altri (splendida la riscoperta di Salvia, Calogero e Cacciatore) la dozzina italiana si chiude con Gatto: all’alba degli anni trenta, trasferitosi dal profondo sud a Milano, città industriale e impiegatizia, sradicato da quel meridione che folgorò Carlo Levi come un Gauguin in Lucania, Gatto pubblicò le prime sillogi. Erano opere venate di nostalgia, una nostalgia delle origini che si traduceva nel nodo memoriale e archetipico infanzia-luce-terra, nodo in cui il ricordo della partenza si associava alla parola morte (Morto ai paesi). Uniche eccezioni alla dozzina centro-italica (in cui sguazza la canzone d’autore di Piero Ciampi) i lombardi Erba e Sanesi (il primo per la tentazione metafisica, il secondo per la l’ansia morale), anomali alla città dei capitani d’industria (quella Milano – leggi Mondadori – che rifiutò le ultime opere di Bigongiari) che, insegna Vacca, è responsabile dell’appiattimento editoriale su linee minimaliste nate dalla fusione di motivi lombardi con una certa idea emiliana della poesia.
Questo settentrionalismo (Vacca non fa nomi ma allude a certa poesia come quella Maurizio Cucchi, il cui corrispettivo musicale – contrapposto al maudit Ciampi – potrebbe essere il protegé Vecchioni) è per Vacca la morte della poesia, con quel suo rendercela, citando Ruffilli, “una chiosa ironica e asciutta intorno alla vita quotidiana”. La selezione degli autori stranieri (da Murray alla Bachmann, da Zagajewsky all’amato Celan) è dettata proprio dalla debita distanza a questo chiosare la quotidianità e allo sterile esercizio del pensiero concettuale: sulla pericolosa soglia del nichilismo, in mezzo agli stupri della parola, questi poeti del nord che non hanno conosciuto l’ermetismo (“la mancanza di una lingua profetica”), pur bruciati dall’inquietudine, riescono, come il tedesco Kruger, a “fare allo stupore la grazia di una proroga”, oppure, come Prévert si sporcano umilmente le mani nel quotidiano. Anche per loro, miracolosamente, la poesia è una voce che si leva dal deserto. Così, nelle immense e aride distese attraversate dall’uomo, la parola ha la necessità di pronunciare la salvezza.