La realtà nascosta è un bel librone sulla vita, l’universo e tutto quanto, scritto da Brian Greene e pubblicato da Einaudi (traduzione di Simonetta Frediani). Un tomo in cui l’autore, e professore di Fisica e matematica alla Columbia University di New York, passa in rassegna con una certa grazia e con senso dell’umorismo le principali intuizioni (o narrazioni?) sull’esistenza del multiverso. Proprio così, il buon vecchio multiverso fatto di infiniti universi popolati da infinite cover band rock’n’blues che eseguono sempre lo stesso pezzo, sempre uguale a se stesso, sui palchi di infiniti pub; o con minime, infinite variazioni, se vogliamo. Una cosa che farebbe venire i brividi a chiunque, tranne forse che ai lettori del cosmo Ultimate pubblicato dalla Marvel, per tacere dei multiversi con Batman e soci. Certo, la ponderosità e la profondità smisurate (è il caso di dirlo) del tema trattato fanno a pugni con alcune pagine. Qua e là ho avuto l’impressione che alcuni numeri espressi in potenza avrebbero dovuto riportare esponente negativo. Ma siccome non ho mai avuto la media del nove in matematica resto a disposizione, potrei essermi sbagliato. Quel che conta è altro. Non i refusi. Quel che conta è il multiverso. Per la precisione, i nove modelli di universi paralleli illustrati da Brian Greene. Nove. Multiversi. Tutto tessuto cosmico genuino che non è scaturito dal bad trip di un cospirazionista causato dall’ingerimento di una peperonata, ma da teorie (e cervelloni) con un pedigree grosso così. Un arrapante cosmo-catalogo da sfogliare secondo le personali inclinazioni del lettore, dal modello patchwork a quello inflazionistico, passando per il multiverso paesaggio e quello olografico. Olo-che? Vi chiederete invano. Non sarò io a spiegarvi cos’è un inflatone, perché fino a pochi giorni fa avrei giurato che fosse un farmaco, o che cos’è il bulk (un multiverso incazzoso?). Se come me siete digiuni di fisica e iperspazio, leggete l’opera di Brian Greene, piuttosto, che vi spiegherà un sacco di cose meglio di quanto potrei farlo io anche se passassi il prossimo ciclo cosmico a studiare più di tutti i Vittorio Alfieri paralleli messi assieme. Ora è tempo di parlar d’altro. Qualcosa di completamente diverso. Un’ideuzza. Una vitina che si è impiantata tra i neuroni come un mal di capa a percussione accompagna un dopo-sbronza.
Semplificando oltre la soglia del ridicolo, il succo del discorso è che i mondi paralleli esistono. Esistono perché la loro presenza scaturisce dai problemi che la natura ha posto agli scienziati. Per far quadrare i conti devono esserci infiniti mondi. Altrimenti il banco rischierebbe di saltare. Un giorno scopriremo che esiste un solo universo grande quanto un candito che galleggia sulla schiumazza di una torta di zucchero squagliata con il saldatore da un cake designer pentito, ma a tutt’oggi la faccenda è questa. Facciamocene una ragione, i modelli matematici suggeriscono che da qualche parte ci devono essere infinite repliche della nostra legge elettorale che non mancano di turbare il sonno di infiniti cittadini italiani. Questa è. Ma non finisce qua. L’infinito è una faccenda spinosa. Pensa a un numero grande così e potrai sempre aggiungerne un altro. E se ad essere infiniti sono gli universi, se viviamo davvero in un multiverso, le probabilità che esistano tutte le occorrenze possibili ci sta facendo l’occhiolino. Il multiverso, come afferma Brian Greene, banalizza i misteri più misteriosi e ossessivi che l’umanità si pone da secoli, come minimo da che abbiamo scoperto le proprietà del peyote. Perché siamo qui e perché siamo noi a essere qui? Perché io respiro e l’aria sembra fatta apposta per essere respirata eccetera eccetera? Questa gallina e questo uovo, non si potevano fare i c… loro? Tutto diventerebbe molto più semplice e accettabile se la nostra non fosse che una possibilità tra miliardi di miliardi di stoca-fanta-ultra-iper-miliardi di possibilità che all’infinito non possono non realizzarsi. Non possono non realizzarsi. Perfetto. Siamo molto più tranquilli. Riponiamo i fazzoletti e beviamo un sorso d’acqua. Lo avete fatto? Bene. Ora però pensiamo a una cosa che potrebbe accadere. A una cosa che forse finora non è accaduta, ma potrebbe. E realisticamente, intendo. L’abbiamo pensata? Ecco, la frittata è fatta, cari miei. Se avete pensato a qualcosa che realisticamente potrebbe accadere, da qualche parte lassù o laggiù o infralì essa sarà accaduta e accadrà. Accadrà infinite volte. Ma chi è che sta giorno e notte a ruminare su cose che potrebbero accadere? Una categoria di bellimbusti, su tutte, si macera in quest’impresa senza posa. Gli scrittori. Gli stramaledetti scrittori. Se il multiverso esiste, così come ci suggeriva Hugh Everett III con la sua interpretazione della meccanica quantistica, e se infiniti imbrattacarte invece di giocare a briscola si macerano inventando storie su storie fino a sfibrare la regola dello show don’t tell e la pazienza di infiniti lettori, allora da qualche parte esistono tutti i personaggi dei romanzi, o per lo meno di alcuni romanzi. E già. Citando Nozick, il grande filosofo che adesso si starà rivoltando nella tomba, chiameremo questa infima idiozia principio di fecondità letteraria.
Prendiamo il modello del multiverso patchwork, il più intuitivo, almeno per me che sono una bestia, e quindi il più facile da maneggiare. Poiché la sua estensione è infinita (si basa cioè sul postulato che il tessuto dello spazio, letteralmente, non finisca mai), nel multi-patchwork “le condizioni si ripetono necessariamente nello spazio, generando mondi paralleli” (come scrive il professor Greene). Insomma, le particelle si combineranno tra loro un numero infinito di volte, generando all’infinito tutte le possibili combinazioni e variazioni del tema. Tutte le possibili combinazioni e variazioni del tema. Ma se esistono infiniti “me” e tutte le possibili variazioni delle particelle che afferiscono a questi infiniti me, perché non anche tutte le possibili storie? Se le vicende di Emma Bovary e la sua personalità sono, come sembra, tremendamente realistiche, se esse rispettano cioè le leggi della fisica e quindi possono essere replicate in linea teorica da una possibile configurazione di particelle, allora da qualche parte nel multiverso le particelle si saranno combinate fino a riprodurre (all’infinito) la storia di Emma Bovary. Se alcune tra le ultra-fanta-strobo-mega-combinazioni hanno ingenerato Kareem Abdul Jabbar e il suo vertiginoso gancio-cielo, come possiamo rifiutare che esse si combinino all’infinito fino a formare quella combinazione lì? Non vi sembra molto più realistica la storia che ci ha raccontato Flaubert del gancio cielo di Jabbar? L’esistenza indubitabile del noto programma politico-lisergico delle tre I, e dei suoi solerti ideatori, non giustifica l’esistenza di Charles Bovary a bizzeffe? Insomma, “Madame Bovary c’est moi”, disse la signora Emma da Terra 2.
Bello, il principio di fecondità letteraria, vero? Ma attenzione a prenderlo sul serio. Perché il nostro gioco mantenga una sua plausibilità (dio della logica, perdonami), diciamo da “chiacchiera alcolica al bar”, e senza che sprofondi nella metafisica del “risveglio dal coma etilico previa intercessione delle schiere angeliche”, sconsiglio di credere che ogni cazzata debba esistere per forza (quest’ultimo è definito principio di facondia). Per potersi guardare allo specchio senza vomitare, il principio di fecondità letteraria tende a escludere gli eventi soprannaturali; e per il semplice fatto che essi sono soprannaturali. Amen. Seppure spronata da un uso troppo allegro degli alcolici, questa vuole essere una riflessione sul mondo fisico, sulle infinite e possibili combinazioni di particelle nel rispetto di quel che sappiamo sulle stesse particelle. Se volete andare a pregare per l’esistenza degli elfi, fatelo pure, ma non in questa parrocchia. Il punto, lo ripeto, è questo: le storie inventate da uno dei tanti sbevazzoni che si fanno chiamare scrittori, qualora e solo qualora corrispondano a una possibile combinazione di particelle, oh madre santissima abbi pietà di noi, ebbene prima o poi queste storie che corrispondo a una possibile combinazione di particelle faranno capolino nell’infinito incrocchiarsi e dipanarsi di trame cosmiche del multiverso, in questo valzer di galassie, brane, bosoni, stringhe e fotoni. E se vi sembra che così declinato il principio di fecondità letteraria sia troppo angusto, vi invito a rifletterci su. Il verismo, il naturalismo, il neorealismo partono in pole position, sissignore, ma potrebbero nascondere qualche sorpresa nei loro motori truccati. Pensiamo al supermostro detto Alien. Lo ricordate? Era un insettone il cui processo biologico ci è stato ampiamente illustrato con dovizia di particolari scientifici. Per non parlare dell’astronave Nostromo, quella dove il mostrone si andrà a incistare. Due più due… Possiamo ritirare fuori i fazzoletti, amici, e ricominciare a sudare freddo. La lista delle storie possibili è lunga, lunghissima, manderebbe ai matti persino Borges. E gli infiniti Bartleby avrebbero un bel da fare a sgolarsi ripetendo “preferirei di no”. La lista delle storie possibili e dei mostri possibili è infinita quanto i libri che sono stati scritti e quelli che devono ancora essere scritti.
Esclusi quelli con gli elfi, ça va sans dire.