Per te che stai leggendo, Dio del cemento sarà solo una raccolta di poesie di Alessandro Pedretta pubblicata da Mora Editrice. Per me, invece, Dio del cemento è la perdita della verginità in termini di giudizio, è la deflorazione che mi strappa dalle letture silenziose a portata di comodino e mi scaraventa sopra al foglio disponibile a tutti.
Dio del cemento significa la prima volta che scrivo di poesia a fini divulgativi, la prima volta che inizio una lettura avvalendomi della prefazione (a cura di Rubens Lanzillotti); una prima volta – in definitiva – di qualità poiché supera tutti i cliché secondo cui la prima volta è sempre un disastro.
Fin dal titolo l’antologia di Alessandro Pedretta mi fa pensare ad un aspro rimprovero alla globalizzazione, un urlo di rabbia e ribellione rivolto all’urbanistica contemporanea che, specchio delle abitudini digitalizzate degli uomini e delle donne del ventunesimo secolo, ingrigisce, soffoca e divora l’anima verde e viva della terra abitata. Dal titolo, dunque, mi annoio moltissimo, pensando che quello che sto per leggere altro non sia che l’ennesima critica mainstream in rime baciate.
Devo, invece, immediatamente ricredermi: a partire dal primo componimento l’aria che tira è si un’aria pesante, ma a causa di una verità ontologica e non di una modificazione operata dall’essere umano; qui si discute del rapporto tra essere, sapere e saper essere, il tutto contornato da una buona dose di cupe assonanze in u che ti costringono a strisciare lungo le «patine di sporco sul pavimento» che ospita i versi d’apertura.
Andando avanti la poesia sembra come riempirsi fino a strabordare, a colmarla è una fortissima spinta verso la fisicità: avanzano prepotenti pance, teste, mani, sudore, la consunzione della natura spiegata come cancrena. La palpabilità, però, non scorre esclusivamente attraverso una precisa scelta lessicale, è la poesia stessa a divenire materia, un corpo a volte duro, muscoloso e fresco, altre esile, di bambino ferito e stanco che si inarca verso il lettore per condividere con lui la rabbia, la frustrazione e subito dopo la gioia che giunge come uno scoppio. Una specie di flusso di coscienza costante e sottocutaneo che affiora, talvolta, con maggiore violenza.
Non manca, a Dio del cemento, la citazione dotta: come non intravedere in quel «ciarpame ossuto» di Dal di dentro e all’infinito la Signorina Felicita di Gozzano mentre se la ride paffuta e rossa; e se ci si sforza ancora un po’ si scorge la penna forte di Sanguineti che, distante ma non troppo, guida un assemblage d’immagini tanto più efficace quanto più assurdo: « […] Badoglio soffiati il naso / che l’aria è irrespirabile / e poi tutti a sniffare cocaina / a Gardone Riviera col Vate che dà ordini ai servi/ in mutande sul balcone / vacche indiane che occupano le strade / in piccoli sobborghi a sud di Calcutta […]».
Ed infine la forte musicalità, al punto che alcune rime potrebbero diventare un ritornello martellante «Lasciami così. /Lasciami bene. / Lasciami male. / Lasciami stare» da ripetere quando il cielo si fa pesante, quando l’umano è troppo umano e solo la poesia, la più severa tra le consolatrici, ha qualche possibilità d’innalzarlo.