Il mercato editoriale è in crisi. Una crisi nera, che lo ha immobilizzato, stretto in una morsa titanica. In una tale situazione di contrattura , in cui il microcosmo dell’editoria giace piegato su se stesso rantolante, le case editoriali hanno preso una decisione stentorea e manifesta. Quella di non scegliere. Hanno deciso di eclissarsi, di diventare sovrani detronizzati, impotenti, fragili imbarcazioni in balia dei flutti. E così si è assistito ad un ineluttabile appiattimento, ad un assotigliamento di sostanza e di contenuti, per il quale, a dire il vero, è complesso scorgere una qualche distonia tra industria televisiva ed editoria. I cooking show popolano, egemoni, i palinsesti televisivi ed ecco che sorgono intere collane a tema culinario. Peraltro modellate sugli stilemi di quei format campioni d’audience.
Per tacere, poi, degli autori, divenuti, perlopiù, una vasta pletora di pseudo-giornalisti, starlette, calciatori , attori e presunti tali, e carneadi di qualsiasi tipo dall’unico merito dei 15 warholiani minuti di fama. Ed è in questo quadro che lo snobismo assurge ad condizione necessaria d’esistenza. O meglio di resistenza. Perché il vivi e lascia vivere non è più sostenibile, al contrario ha stritolato il panorama letterario italico, relegando venerandi maestri e valenti giovani ai bordi, privando gli uni della possibilità del ricordo e gli altri della prospettiva. E dunque la domanda a cui l’offerta si è abbandonata deve, per forza di cose, educare quest’ultima, riportando al centro ciò che maggiormente dovrebbe contare in questo ambiente. Il talento. La scrittura. Il lettore deve esigere, snobbare, far avvertire forte la sua presenza. Affinché la letteratura italiana non resti un fosco e annebbiato ricordo.