“Non contento”. Con queste parole inizia uno dei più formidabili monologhi della letteratura universale; monologo che è un urlo di vergogna; vergogna di un volto ferito che denuncia una società eticamente in agonia.
Sto parlando delle parole pronunciate da Gwynplaine nella parte finale de “L’uomo che ride” di Victor Hugo.
Non farò un riassunto del libro ma solo un accenno alla parte che mi interessa per questo articolo: Gwynplaine è il protagonista ed ha una terribile deformazione fisica, provocatagli durante l’infanzia, che lo costringe perennemente a sorridere. Ha un ghigno artificiale lungo la faccia, che gli ha permesso di sopravvive girando di città in città in una specie di carrozzone da circo facendo il freak. Senza svelare troppi dettagli, ad un certo punto la sua vita ha una svolta e lui si trova a sedere in parlamento tra i Pari d’Inghilterra. E in quella sede, alla prima votazione in cui è coinvolto (aumentare i privilegi di un nobile), vota “no” e prende la parola per argomentare la sua decisione.
“Signori, io vengo a recarvi una notizia. Il genere umano esiste”: è l’inizio di questo “j’accuse” contro i privilegi dei governanti (certo di quelli inglesi, ma per estensione, di tutti i potenti del mondo). Le parole che Gwynplaine pronuncia sono terribilmente attuali (succede sempre così nei classici), ma ciò che le rende uniche per una volta non è solo il loro contenuto (potentissimo peraltro), ma la loro forma. Gwynplaine le dice con il sorriso sul volto; certo è un sorriso perenne, involontario e non cancellabile, ma pur sempre un sorriso. E la dicotomia tra la drammaticità del contenuto e l’ilarità della forma rende queste pagine superlative.
Giusto un paio di citazioni:
“Voi approfittate della notte. Ma badate, c’è una grande potenza: l’aurora: l’alba non può essere vinta. Giungerà”.
“Io vengo a denunciare la vostra felicità; essa è fatta con l’infelicità altrui”.
“Essere comico fuori e tragico dentro; nessuna sofferenza più umiliante, nessuna collera più profonda”. E poi, in risposta a un preciso atto di accusa, le risa della platea: “il riso degli uomini fa talvolta tutto quello che può per assassinare”.
Il monologo apre uno squarcio su una tela fino a quel momento intonsa; uno squarcio proprio come il sorriso del protagonista che è una specie feritoia da cui si affaccia la realtà sociale autentica dell’Inghilterra di quegli anni. Gwynplaine ha una malformazione davvero incandescente, terribile e pronuncia parole di fuoco che – anziché scuotere le coscienze – causano le risa degli ascoltatori. Fino alla fine tutti sono in dubbio sulla serietà di quanto sta denunciando e alla fine solo una persona riuscirà a capire che la deformità di uno è la deformità dell’intero genere umano. Le parole pronunciate sono una testimonianza diretta di chi non si limita a descrivere, ma di chi ha vissuto ciò che narra; di chi, vittima fino a poco prima, ora vorrebbe farsi portavoce degli ultimi, degli emarginati, della maggioranza sofferente. Solo che il testimone non può smettere di sorridere, di sogghignare tra le lacrime, di disperarsi e causare divertimento molto prima che indignazione. È “non contento” col sorriso sulle labbra; piange lacrime di sale ed è condannato al riso; mortifica un uditorio in realtà completamente cieco e per nulla disposto a dargli ascolto.
Trovo queste pagine portentose e trovo Gwynplaine uno dei personaggi più complessi e completi dell’intera produzione di Hugo. Egli è insieme il mondo e un abitatore del mondo; è il tutto e una sua parte, è una raffigurazione e una sostanza tangibile, è gioia e disperazione; la sua malformazione è una lente di ingrandimento, è un taglio netto (in senso letterale) con l’appiattimento e l’assenza di valori sociali. Quel sorriso, sgraziato, terribile, commovente e commosso, inonda le coscienze di chi legge: è una specie di antitesi dialettica che ci sbalza, ci scuote e ci mette con le spalle al muro, per permetterci di sondare gli altri sorrisi – supponenti, alteri e privilegiati. La malformazione fisica, è il marchio della malformazione del mondo: è una specie di sigillo strappato posto su una realtà iniqua fino all’autodistruzione.
Il sorriso drammatico di Gwynplaine genera le risa sguaiate dei Pari; le risa sguaiate dei pari sono un morbido cuscino sul suo volto che, così, finisce per soffocare assieme alla speranza di giustizia di cui si era fatto visionario e utopico paladino.
Infatti, all’autodistruzione è condannato il protagonista: non c’è speranza per lui. La derisione, lo scherno e l’alterigia dei nobili fa desistere Gwynplaine, lo fa tornare nel suo piccolo colorato, sincero e malato mondo. Ma neppure quel mondo è più lo stesso, ne viene a mancare il pezzo a lui più caro. Non c’è più speranza per lui e per noi e quindi:
“La notte era fitta e sorda, l’acqua era profonda. S’inabissò. Scomparve con una cupa calma. Nessuno vide né udì nulla. La nave continuò a navigare e il fiume a scorrere”.