Caro lettore e cara lettrice, quella che hai davanti è la seconda versione della mia recensione di Consigli di Volo per bipedi pesanti, ultima fatica poetica di Alessandra Racca – in arte la Signora dei calzini – pubblicata da NEO.Edizioni.
Nella prima versione – poi abbandonata – mi impegnavo caparbiamente a raccontare l’antologia di Racca presentandone le linee poetiche principali, forzandole in fila, costringendole in un ordine unico e definitivo. Lo sforzo nasceva dall’intento di imitare l’ autrice stessa. L’antologia è infatti divisa in serie ben definite in cui il materiale – poetico e non – sembra acquisire concretezza tangibile, destinata a riempire barattoli, muri, caselle di gioco, ad occupare – insomma – posti nel mondo tutt’altro che astratti.
La seconda versione di questo articolo è diversa dalla prima ma è legata ad essa da due parole d’ordine: irriverenza e sincerità, alle quali va aggiunta una terza: leggerezza. Se l’irriverenza fa della poesia di Racca un ciclone contenibile solo nei limiti stabiliti dalla poetessa, la sincerità è il filo conduttore che lega ogni verso, ogni a capo, ogni brillante immagine proposta.
E’ sinceramente concreta la vita che abita queste rime, bella e forte nella rassicurante noia del consueto: «Ci metto gli accendini scomparsi/ le tasche altrui/ le biciclette rubate». E’ leale la foto della donna che scorre come un frame inceppato lungo tutta l’opera, reale è il suo corpo stigmatizzato dallo sguardo del mondo : «È stato facile/ mentre mi giocavi fra le gambe/ lasciarti guardare dentro/ l’hai vista/ l’adolescente obesa/ la rancorosa rifiutata l’insicura/ l’eccessiva/ la non amata/ hai detto è bella è bella la tua carne/ hai detto questa è una porta non è una ferita/ il tuo seme l’ha curata».
Trattasi, dunque, di un «un essere umano donna» la cui contemplazione non può che scatenare una critica a quel ridicolo immaginario che ci vorrebbe eteree, nella rabbia anestetizzate, fatte di carne viva e pulsante a patto che essa sia dolce e profumata:«Cinque, definisci il suo corpo/ definisci vergognoso il sangue/ ammutolisci i suoi orifizi/ parla al posto loro»; «Mi dimetto dalla delicatezza,/ con il dito medio/ tocco punti nevralgici del dolore altrui».
La realtà che emerge da questi versi è un fiume in piena, pronto a straripare e per narrarla con efficacia è forse necessario, in alcuni casi, adoperare il linguaggio della verità per eccellenza, quello genuinamente primitivo che ha fama di essere talmente sincero da risultare, talvolta, spietato: la nonlingua dell’infanzia: «assorbimento fuoriuscita consumazione exit fuori/ via di qua vada dove deve andare ritorno a casa sua/ sciò totale tutto stop non ce n’è più/ finito tutto il male basta».
La terza parola d’ordine è, come dicevamo, leggerezza. Può una poesia così volutamente ancorata al quotidiano, così profondamente con i piedi per terra farsi vaporosa e spiccare il volo? Può – e con bellissimi risultati – se chi la compone è pienamente consapevole del piccolo miracolo che sta avendo luogo: una sdrammatizzazione della poetica canonicamente intesa, un’attualizzazione dello strumento lirico, un elogio all’imperfezione e al banale che è miele sulle fatiche imposte dal “normale”: «Se in una poesia scrivo “io”/ “io” non è più mio/ è un io strumento, lirico/ un io in bilico fra me e voi/ un io condiviso – un io-noi/ sono certa di offrire un servizio di io-sharing/ io, di altri “io”, cliente/ basta con questa storia inconsistente/ parlare di sé non è parlare di niente».