Il sergente Turner è morto. Me lo dice Brian Turner in persona, verso la fine di “La mia vita è un paese straniero”. Mettiamo da parte questa informazione, poi ci tornerà utile.
“La mia vita è un paese straniero” non è un libro di guerra. E’ la guerra. E’ tutto quello che implica essere un soldato in guerra. Significa portarsi sulle spalle generazioni precedenti di combattenti, dentiere fatte con i denti della battaglia di Waterloo, droni che sorvolano il deserto, pezzi di cadavere da segnalare con delle bandierine colorate, i morti del “nemico”, le famiglie di chi viene ucciso e di chi sopravvive. Significa vedere la guerra anche quando non ci sei più dentro, perché si sei sempre dentro. Anche quando torni a casa e sorseggi una bibita con tua moglie. Tu ormai sei diventato parte della guerra. Non è più possibile esercitare una separazione.
Brian Turner ci racconta la propria esperienza, ma per raccontare ciò che ha visto con i propri occhi si volge anche al passato. Alle guerre combattute dal padre e dal nonno, le Ardenne e Iwo Jima, Guam e Iraq. Si passa attraverso innumerevoli campi di battaglia per arrivare al presente. A quel momento in cui, disteso su un comodo letto, qualcosa sorvola la testa dello scrittore e rimescola tutti i ricordi. Il rapporto con la morte, la propria e quella degli altri. La pornografia utilizzato come un anestetico, il progressivo smarrimento dei sogni da realizzare una volta tornati a casa. Quel momento in cui i sogni si mescolano agli incubi e alla realtà. Il ritorno sul campo di battaglia dopo una licenza e l’attesa che il ritmo della guerra torni a scorrerti nelle vene.
E’ raro trovare un libro che parli di guerra senza scadere nel pietismo, nello squallore e nel sensazionalismo. E’ raro che non si spinga sul tasto dell’orrido, del sangue e dei brandelli come unica reificazione di un conflitto. Brian Turner parla di guerra da dentro, visto che lui dentro c’è stato. Ne parla a voce bassa, senza proclami, non esplicita una vera e propria condanna perché non ce n’è bisogno. E’ tutto davanti ai nostri occhi. Dice: L’America non ha abbastanza spazio per contenere tutta la guerra che ogni soldato si porta a casa. E se anche l’avesse non vorrebbe.
“La mia vita è un paese straniero” è un libro senza numeri di pagina. In ogni momento si ha la sensazione di perdersi in questa mancanza di indicazioni. Quasi come se il tempo perdesse importanza. Quasi come se non avesse più importanza l’ordine di lettura e il libro potesse farci avanzare a salti. Da una scena all’altra, come se il flusso temporale fosse gestito dal caso. L’esperienza di lettura è straniante. In qualsiasi momento siamo dentro alla guerra e c’è guerra tutto attorno a noi. Non stiamo procedendo verso nessun luogo, non c’è un orizzonte luminoso davanti a noi, una specie di salvezza. Siamo fatti della stessa sostanza di cui è fatta la guerra.
Fortunatamente, il sergente Turner è morto, mentre il poeta scrittore Brian Turner è vivo e ha scritto questo capolavoro. Sì, ho usato il termine “capolavoro”. Me ne farò una ragione.
Ottima la traduzione di Guido Calza. Questo non è un libro facilmente inquadrabile. Si salta da uno stile all’altro, da un linguaggio all’altro senza sosta. Starci dietro è un’impresa.
Non ho altro da dire su NNeditore. Ho detto tutto nelle recensioni precedenti. Riassumo: Ha fatto più NNeditore in nemmeno due anni che tante altre case editrici. Poi, per carità, le cose che pubblicano possono piacere o meno, ci sta, è questione di gusti, ma hanno beccato Haruf, Offill, Turner e Poissant (e altri che dimentico) e non può essere sempre questione di fortuna.
BRIAN TURNER
Brian Turner ha servito per sette anni nell’esercito americano. È stato in Bosnia-Erzegovina e in Iraq, in Medio ed Estremo Oriente. Saggista e docente universitario, ha debuttato nel 2005 con la raccolta di poesie Here, Bullet, ottenendo riconoscimenti di critica e di pubblico. La sua seconda raccolta, Phantom Noise, è stata candidata al premio T.S. Eliot nel 2010.