Nei corsi accademici di letteratura italiana del Novecento non è facile imbattersi nel nome di Mario Pomilio. La recente ripubblicazione del suo Quinto evangelio (1975) ad opera dell’editore L’orma ha il preciso intento di riportare l’attenzione di lettori e critici sulle sue opere. Cosa, obbiettivamente, non semplicissima nella società ipersecolarizzata in cui viviamo, perché Pomilio è un autore etichettabile come “cattolico”, e nella sua opera si pone domande e quesiti di natura religiosa e cristiana.
Il Quinto evangelio può essere letto come una riscrittura a tappe della storia d’Italia e della letteratura italiana attraverso una raccolta di documenti apocrifi che attestano la ricerca inesausta da parte di uomini inquieti del quinto vangelo nel corso dei secoli.
Cosa sia questo quinto vangelo è domanda alla quale non si riesce a rispondere in maniera univoca, anche se, di risposte possibili, al lettore ne sono offerte molte. L’allestitore di questa raccolta di documenti è un soldato americano che, durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, a Colonia, si imbatte, compulsando un breviario, nelle tracce di un presunto quinto vangelo che sarebbe, accostato ai quattro canonici, il testo in grado di illuminare tutta la storia del cristianesimo di nuova luce e autenticità.
Non è un libro facile, quello di Pomilio, ma è vero che ha qualcosa di postmoderno e pynchoniano, e questo aspetto appare in maniera imprevedibile e anomala perché è contenuto in un’opera mossa da rovelli spirituali, etici e religiosi. È importante sottolineare, però ̶ e questa è una delle ragioni per cui Pomilio può essere apprezzato da molti ̶ che non c’è la minima traccia di adesione a dogmi e tradizioni da parte sua: il modo in cui l’autore si (e ci) interroga è sempre e programmaticamente aperto al dubbio, anzi, usa il dubbio come grimaldello, come procedimento raziocinante.
Nei capitoli del Quinto evangelio Pomilio gioca con i generi letterari e si diverte e incanta il lettore ricreando la lingua italiana e la sua evoluzione nel corso della storia, riproducendone in maniera mimetica le peculiarità sintattiche e lessicali.
L’ultimo capitolo, poi, un’opera teatrale intitolata Il quinto evangelista, mette in scena un’analisi filologica dei vangeli ad opera di militari, soldati nazisti, donne, prelati, uomini di potere e intellettuali durante la seconda guerra mondiale. Sono pagine davvero stupefacenti per la densità e la complessità dei temi.
Viene naturale, come molti hanno fatto, accostare questo romanzo al Regno di Carrère, di cui negli scorsi mesi si è parlato dovunque. Ma certi splendidi capitoli del libro di Pomilio, ambientati nel Medioevo, per la loro capacità di rendere vivida l’arcana vita e le inquietudini degli uomini del tempo mi spingono ad avvicinarlo anche ad una serie di altre opere che hanno raccontato letterariamente episodi provienienti dalle sacre scritture. In particolare al Lazzaro di Leonid Andreev (a riguardo segnalo che Andrea Tarabbia ne ha scritto cose bellissime sul suo blog), al Barabba di Lagerkvist (autore svedese Premio Nobel per la letteratura nel 1951) e all’italiano La Gloria di Giuseppe Berto – altro testo troppo dimenticato, incentrato sulla figura di Giuda. In questi romanzi seguiamo profeti assetati e scalzi nei deserti, ascoltiamo le loro parole sibilline, viviamo da lettori un mistero rinnovato, che ci si rivela come una storia: una storia incredibile, affascinante, sconcertante, letteraria, una storia che ci chiama in causa, ci pone delle domande.
Proprio Giuda è un esempio utile a mostrare che le domande di Pomilio non sono riservate solo a cattolici fatti e finiti: il traditore per antonomasia è infatti una figura che ci permette di riflettere sul determinismo, sul libero arbitrio e sulla necessità: fino a che punto è stato padrone delle sue azioni, se doveva essere necessariamente una pedina indispensabile affinchè i fatti si svolgessero come previsto dal disegno della salvezza? È Giuda quindi l’unico uomo non salvabile?