Per diventare la ragazza più bella d’America, bisogna superare delle “prove” difficili, molto difficili. Non per fare sempre il guastafeste della situazione, ma questi concorsi di bellezza dovrebbero mettere in risalto ben altro, oltre a tette, fondoschiena e tutto ciò che ne consegue. Mi odierete, lo so, non posso farci niente, specialmente quando vedo, noto alcuni indumenti che queste “povere” donzelle devono per forza indossare, altrimenti la porta con la scritta “Exit” sarà a portata di mano pronta per essere aperta. Tornando agli Stati Uniti d’America, girovagando per il web, alla sezione immagini, la mia attenzione è stata captata da un paio di scarpe niente male. Peccato che le stesse sono state infilate da tutte le aspiranti Miss America 2014, mica dalla mia compagna di banco alle scuole elementari. Tacchi alti quanto un grattacielo, disegni di tutti i generi, con la bandiera statunitense in bella mostra e tanto altro. Le foto, tratte da Ap/LaPresse, parlano da sole. La domanda è sempre la stessa: era proprio necessario?
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Nel 1936 Jacques Lacan introduceva nella psicoanalisi freudiana la locuzione di fase dello specchio intesa come momento in cui nella mente infantile si comincia a costituire il nucleo dell’Io.
Nel 1936 moriva a Roma Luigi Pirandello, teorico indiscusso di maschere e identità.
Nel 1998 Duane Michals (McKeesport, 18 febbraio 1932) fotografava Odette con gli occhi fissi nei suoi occhi dilatati allungati sdoppiati, sei volti una sola persona, sei persone un solo volto.
Nel 2013 il 50% del popolo italiano si è specchiato ogniqualvolta ne abbia avuto possibilità;
chissà cosa avrà visto.
A me piace fotografare. Lo facevo già da bambino. Ricordo una volta, credo di aver avuto 5 anni, ho insistito per scattare una foto io, con la macchinetta di famiglia, una Agfamatic 50, che usava caricatori formato 126 e faceva foto quadrate. Per le foto all’interno si usavano flash a cubo usa e getta. L’ho scattata a mio padre, che si era accosciato. Dopo qualche settimana, l’ho vista, la mia prima foto. Storta, ma ero felice.
Il tempo è passato, ho continuato a fare foto, per passatempo o per ricordo, con l’incoscienza di un ragazzino, ma contento di ciò che facevo, poi d’un tratto ho smesso. Uscivano le prime digitali, i negozi di fotografia quando arrivavi con un rullino da sviluppare e stampare cominciavano a guardarti storto. “Passa al digitale” dicevano, senza sapere che per molti di loro sarebbe stata la fine.
La prima compattina digitale la presi con i punti della benzina, ma anche li, la qualità era schifosetta, e dopo pochi mesi la macchina era già vecchia (e pensare che le vecchie analogiche duravano anni!!!!). E così non feci praticamente più foto. Qualcuna col cellulare, una volta preso uno con la fotocamera, ma cose da poco, senza impegno.
Poi, negli ultimi due anni una folgorazione, ricomincio a fotografare con la pellicola, a causa di un giocattolo, una macchina fotografica analogica da costruirsi da soli. Una cosa da poco, ma tanto basta per riavvicinarmi a quel mondo. La voglia di fotografare e sperimentare aumenta, e mi rendo conto che anche con il cellulare si possono fare scatti validi, dopotutto il successo di Instagram è solo la punta dell’iceberg della mobilephotography. Mi piace, mi diverto. Però manca qualcosa.
Qualcosa che quando scatto con una delle mie macchine analogiche (al plurale perchè nel frattempo le bimbe sono cresciute) riesco a sentire, e ho sempre pensato che quel qualcosa in più fosse l’attesa, sia per scattare, perchè non si cancella uno scatto analogico, sia per vedere il prodotto del lavoro.
Ma non era l’attesa in realtà. Sia chiaro, non voglio entrare nell’eterna diatriba analogico vs. digitale, anche perchè a me interessa qualunque cosa fermi la luce, in una immagine, su qualunque supporto, matematico o chimico. Ed è proprio dalla chimica che ho capito perchè sono così attratto dell’analogico, ed è una cosa che il digitale non potrà mai avere. L’odore delle foto. Che comincio a sentire da quando apri il rullino dentro la sua scatolina per caricarlo. Credo che potrebbe riconoscere le emulsioni delle pellicole a occhi chiusi. Poi quando ritiri le tue foto stampate, l’attesa e la curiosità di vedere se i risultati sono quelli aspettati probabilmente acuiscono tutti i sensi, compreso l’olfatto. E allora senti nitidamente l’odore dei chimici usati per sviluppare la pellicola, e quello, diverso, delle foto stampate.
E come con tutti gli odori particolari, la mente ritorna all’infanzia, a quella prima foto, all’Agfamatic 50.