Quando ero piccolo e mi portavano, con la scuola, in giro per chiese, c’era solo una cosa che mi distoglieva dalla noia. I mosaici. Vedete, mi sembrava impossibile che una persona si mettesse lì, con tutta la pazienza di questo mondo e riuscisse a tirare fuori un’opera così complessa da quell’infinità di quadrattini colorati. Mi immaginavo anche il prima, quel momento in cui, secondo la mia fantasia infantile, il tizio si metteva con martello e scalpellino a ricavare i suoi piccoli quadratini colorati da una massa più grande e informe.
Certo, nel disegno meraviglioso che mi trovavo davanti c’erano anche dei pezzi bianchi e altri neri che non rubavano l’occhio, quello era rapito dagli azzurri come il cielo, dai rossi del sangue e i verdi dello smeraldo, eppure, nel complesso, nessun pezzettino mi sembrava inutile. Avevano tutti un senso ed un ruolo preciso.
Quello di Sam Shepard è un libro che si avvicina molto alla mia idea di mosaico. “Diario di lavorazione” è una composizione unica, eppure ci sono dei tasselli, dei brevi pezzi di narrazione che se presi singolarmente potrebbero non rubare l’occhio, ma messi assieme a tutti gli altri danno all’opera il giusto equilibrio.
Iniziare un libro trovandosi danvanti ad una testa decapitata che parla, si lamente, ride e costringe un povero disgraziato e solo a portarsela in spalla ti rapisce. Arriva come una secchiata d’acqua a svegliarti.
Leggendolo mi ha pervaso un senso di angoscia. Una sensazione fortissima che tutto fosse destinato a finire male. La stessa sensazione che si ha a volte cercando di vivere la vita. Tra brevi spezzoni di narrativa, poesie, racconti più lunghi si ha l’impressione che Sam Shepard stia girando un documentario è che lo stai facendo sommando punti di vista diversi su una stessa materia. Una materia densa, la vita vissuta sulla strada, su quelle Highways mitiche di cui abbiamo sempre sentito parlare e che non abbiamo mai visto sotto questa luce. Quelle Highways che raccontano semplicemente un modo di essere umani. Niente a fatto consolatorio. Sam Shepard raccoglie quel pulviscolo che spesso non consideriamo e ce lo porge davanti agli occhi.
Playground non è nuova a queste imprese. Andrea Bergamin ha un’idea ben chiara di come debba essere la letteratura. È fin troppo facile pubblicare libri consolatori, libri in serie, libri facile. Il difficile, nell’editoria, è pubblicare qualcosa che schiaffeggi il lettore, che lo disturbi al punto da farlo riflettere sulla propria vita. La letteratura deve lasciare un segno.
Molto buona la traduzione di Sara Antonelli e molto apprezzato il fatto che il suo nome sia riportato sulla quarta di copertina. Una visibilità e un riconoscimento del lavoro del traduttore che sempre più case editrici stanno abbracciando.
Ovviamente poi abbiamo la copertina. Credo che lo sappiano anche i sassi che Maurizio Ceccato è uno dei miei grafici preferiti. Questa volta mi ha messo un po’ in difficoltà. Inizialemente non riuscivo a comprendere come questa copertina entrasse nel tema del libro. Dopo averlo letto ho capito che ripropone perfettamente un’immagine di quel tipo di americano che è facilmente incontrabile in una qualsiasi Highway. Bella anche la discrezione con la quale viene riproposta una sorta di bandiera americana su sfondo azzurro.