Quando eravamo prede di Carlo D’Amicis (Minimum fax)
di Alessandro Cinquegrani
Non so se Quando eravamo prede, l’ultimo romanzo di Carlo D’Amicis, sia il miglior romanzo degli ultimi tempi, anzi forse non lo è, ma è certamente il più rischioso e, in quanto tale, probabilmente il più significativo. È un libro ampiamente incompreso e forse equivocato, ma che è in grado di confrontarsi col mondo e la società attuale come certi poemetti allegorici settecenteschi.
È la storia di una strana popolazione di esseri viventi che non sono più animali, anche se ne portano i nomi, ma non sono ancora uomini. Sembrano essere preistorici, ma in realtà vivono un tempo parallelo al nostro, pronto a detonare a contatto con la civiltà. Rispettano gerarchie arcaiche, vivono di caccia, uno stallone ora in decadenza offre il proprio seme alle femmine nel periodo della riproduzione. Non è una civiltà idilliaca: anche questa ha le proprie storture, le proprie perversioni, che vanno al di là della natura maschilista e violenta che pure ci si potrebbe aspettare.
Eppure confrontarsi con questo universo permette di ragionare attorno a un tema maiuscolo nella sua ovvietà: il senso. Senso del vivere civile, senso dell’uomo, senso dei rapporti interpersonali che oggi diamo per scontati. Le certezze sociali, ma anche le certezze radical chic, vengono improvvisamente e quasi clandestinamente messe in crisi da questo romanzo. Mentre ci racconta di un’iniziazione alla caccia, di una curiosa convivenza a tre, della difficoltà di riprodursi o di trovare cibo, dell’irresistibile fascinazione per una donna umana, il libro parla in realtà di altro. Come lo stesso autore afferma, il romanzo potrebbe parlare di eutanasia o di aborto, temi mai neppure sfiorati nel testo, ma inclusi nei grandi interrogativi riguardanti il senso dell’uomo.
Viviamo in un’epoca nella quale da parte degli scrittori torna pressante l’esigenza di liberarsi delle certezze illuministiche per guardare con curiosità, se non altro, alle profondità spiritualità di altre tradizioni. Ne parlano in modo diverso eppure legato il Carrère del Regno o Houellebecq in Sottomissione, due interpreti d’eccezione della decadenza dell’Occidente. Rispetto a questi autori D’Amicis fonda il proprio romanzo su presupposti simili, ricorrendo però alla favola piuttosto che alla filosofia, all’allegoria più che all’affermazione. Un linguaggio, questo, al quale forse – ed è questo un altro difetto del nostro Occidente – siamo disabituati, tanto che un romanzo importante come questo può restare quasi del tutto incompreso, ahinoi!