Nei laghi del nord Italia sguazza da decenni il pesce siluro, il Silurus Glanis, specie che, riferisce wikipedia, “nelle acque in cui è stato introdotto è fonte di problemi e di impatti drammatici sulle popolazioni autoctone”. Praticamente è uno di quelli da cui è meglio non essere preceduti quando siete a un buffet. E’ interessante spiegare in che modo sia andato colonizzando le nostre acque, da vero e proprio imbucato a principe dei fanclub: accidentalmente, nel prelevare avannotti di altre specie da ripopolare come carpa e pesce gatto, finirono nelle reti anche alcuni esemplari di siluro, pesce di cui nessuno (contrariamente a certo fanatismo contemporaneo) all’epoca sentiva alcun bisogno. Gli estimatori del siluro garantiscono che il loro monstrum abita acque infime e che non può intaccare in alcun modo l’habitat di altre specie, ma non è così: c’è un lungo periodo dell’anno in cui il siluro si alza un po’, e il luccio si abbassa un po’, e il buffet è lo stesso.
L’editoria ha qualcosa che ricorda i fondali lacustri, ad esempio quei libri che dagli autogrill alle librerie si portano via migliaia di lettori-sardina rivelandosi competitor voracissimi; esattamente come i fanatici del siluro, quelli dei libri-spazzini sostengono che la presenza del loro glanis non ha impatti sull’ecosistema, anzi, gli fa pure bene. (Inutile dire che il Glanis è un pesce che per l’aspetto di antico mostro marino si presta alla mitizzazione: su di lui si sprecano le leggende metropolitane che narrano di cani e bambini strappati alla terraferma, che porta nuovi lettori eccetera). Una volta, ai tempi di Vita standard, era il 1985, Aldo Busi dichiarò che in Italia i lettori che potevano leggerlo erano diecimila; a metà degli anni novanta erano scesi a cinquemila; oggi, ci fa sapere, sono divenuti 666 (“persino gente laureata in lettere comincia a trovare difficile, anzi, ostico, al di là della personale attrazione o repulsione, un testo che avrebbe potuto e saputo leggere fino in fondo, almeno capendolo se non proprio sentendolo, chiunque avesse fatto le scuole medie negli anni sessanta”). Costruito come una digressione unica, una libera e rapsodica divagazione sterniana che ha per vero topic la libertà (dissertata nei contenuti e mostrata nello stile), Vacche amiche non fa nemmeno finta di stare attaccato al titolo, perché, dice l’autore, un vero scrittore non può che essere un uomo libero, anzi, deve essere un uomo libero, concetto più attinente all’etica del fare che all’estetica del sembrare, una libertà che va quindi circoscritta, epurata, spurgata dall’impregnante yankee di cui quella parola è ricoperta da decenni (libertà = Harley Davidson). A stretto contatto con questa accezione di libertà, lo scrittore riconfigura se stesso e diventa, prima di ogni altra cosa, prima ancora di colui che dà vita a dei personaggi, colui che dà vita a dei lettori:
Un lettore, sottinteso vero, se ha tutto il diritto di respingere un libro per i suoi contenuti, di respingerlo intellettualmente e civilmente e politicamente, a parte il modo in cui è scritto, diffida del libro che gli piace emotivamente, del libro che è stato scritto per piacergli: è un inganno titillato dalla complicità dell’autoinganno.
A scrittore vero corrisponde lettore vero. Quest’ultimo deve arrivare ad affermare che gli piacciono i libri che prima di ogni altro non gli piacciono, perché quelli sono i libri che hanno ragione e bisogna, da veri lettori, imparare a dargliela. Siamo agli antipodi dell’impregnante occidentale “liberi da, liberi di”. Stiamo parlando di una visione assolutisticamente etica dell’esistenza, una concezione totalitaria che investe la vita in ogni sua manifestazione e da cui non si può espungere nulla, né la sessualità né un hashtag né il renzismo; quest’ultimo col suo “le tasse non sono più una cosa bellissima da pagare” si pone sulla stessa linea dei suoi autori leopoldani, autori di “libri che piacciono emotivamente”. Busi, che può permettersi di parlare di mercato perché il mercato lo conosce bene, lo ha frequentato, ne è stato a lungo ghermito, ne ha a lungo usufruito, ci dice che non ci sarà più spazio per un letterato vecchio stampo come lui, perché si sono diffusi quei “non lettori incaponiti sull’assassino, sulla tresca, sulla mamma biologica, sul culo da scoprire”. E Vacche amiche non è per lettori incaponiti. Già la sua definizione è ardua e ambigua: presenta in copertina la parola autobiografia (“non autorizzata”), in bandella si parla prima di romanzo e poi di saggio, finalmente in quarta, entrando in contatto con la grana del testo (pieno stile Busi) capiamo che si tratta di filosofia. In fondo Busi, nei suoi primi sessantasei anni, non ha fatto altro che spiazzare (talvolta spiazzare per spiazzare, talaltra spiazzare per definire, come nell’ultimo Especialista, dove tornava a spiazzare la Letteratura), spiazzare i benpensanti i malpensanti i nonpensanti.
Scrittore moralista, di quella antica e secentesca scuola francese che in Italia ha avuto ben pochi seguaci, il suo rigore etico si lascia intravede anche dietro la scorza letteraria e retorica (ma se volete vederlo rifulgere senza orpelli procuratevi Altri abusi e aprite una pagina a caso); raffinato maestro del paradosso e della flanerie postmoderna, Busi è tutto corpo e nulla ha da spartire con gli eccentrici di massa e i ciberflaneur contemporanei: il suo vagare è un percorrere-indagare-sentire il globo-gli uomini-le cose e in Vacche amiche la libertà lo porta all’audere estremo, a un vis à vis con Proust e Mann, impensabile ai più; il primo è subito regolato, in una sfida tutta sensi con la madelaine al centro del contendere, il secondo si rivela un competitor più ostico, e l’incontro si risolve in un comico viaggio immaginario in cui Busi piomba a Davos con la mise domestica, una vecchia vestaglia di spugna che sembra proprio venire da un altro secolo.