“Abbassa la testa e parte con una rullata furiosa, la doppia cassa sotto e bastonate ai piatti ogni tanto. Suona come una motosega che apre in due un mitragliatore che spara alle pale di un elicottero mentre qualcuno lì accanto sta tagliando l’erba. Mi sa che domani spacchiamo tutto veramente”. Così l’incipit di questo romanzo densissimo, Esche vive di Fabio Genovesi (pubblicato da Mondadori), un giovine autore dallo stile rotondo eppure profondo, voce post-post, mod-modern e pre-precog della nuova scena neoneo-cocopro-idealrealistica che nelle più grandi metropoli italiane ha fulminato interi rioni, in specie se popolati da languidi intellettuali à la page indietro con gli esami della specialistica. L’arte del non detto portata lì dove nessuna penna era mai giunta prima, l’eclissi d’un’ellissi trasmutata in nuovo orizzonte degli eventi. Dopo Pirandello, Max Weber, Rick Jones, Barabba e Tom Clancy, ora non sappiamo più come e dove e perché, ma siamo finalmente riusciti a trovare un narratore vero. Un narratore che ha il coraggio di guardare negli occhi il lettore, passare al setaccio le sue, anzi, le nostre debolezze, già titillate e ben nutrite dalla bieca spettacolarità hollywoodiana, e quindi eliminare scientificamente ogni patina di bellezza e leggibilità atta a insudiciare le pagine del grande romanzo italiano. Perché il grande romanzo italiano ha da essere venduto con un cilicio in omaggio.

Oh, stavo scherzando, lo avrete capito. Innanzi tutto quello non è l’incipit di Esche vive, ma un passaggio che mi è piaciuto una cifra. E in secondo luogo, ben lungi dall’essere un apostolo del “non detto” e ben lungi dal guardare il lettore negli occhi per rovinargli la festa, Fabio Genovesi è un eccellente, strepitoso ritrattista di vite di provincia, e tutto ciò per fortuna senza che l’uggia della provincia passi dalle smanie dei personaggi al racconto. Uno di quelli che quando scrivono vanno a briglia sciolta ma sanno sempre dove stanno andando a parare. Il che, lo so, può apparire contraddittorio, ma che la letteratura non sia mai stata un affare troppo rigoroso ormai dovrebbe essere chiaro ai più. In attesa del suo nuovo romanzo, Chi manda le onde (in uscita in questi giorni), Esche vive, già ristampato in edizione economica, potrebbe rappresentare un’ottima occasione per scoprire un autore di storie comiche e commoventi, serissime ed esilaranti, piene di fatti, battute ed eventi; di storie, dannazione, che fanno ridere, fanno piangere e fanno dire “wow”.

“Va bene, forse il coma è l’esperienza più vicina alla morte, ma dormire nello stanzino delle esche vive non ci va mica tanto lontano”, dice uno degli sfigatissimi ma deliziosi protagonisti di Esche vive. Non sappiamo se ciò sia vero e nessuno qui penso voglia scoprirlo. Non con un esperimento, mi sa. I vermi non godono di buona stampa. Ma in questo dubbio che ci ottenebra come ineludibile condizione esistenziale da che mondo è mondo, una cosa ieri sera appariva certa. Questa cosa: leggere del destino incrociato di Fiorenzo, Mirko e Tiziana, il primo giovane metallaro e pescatore offeso non solo nell’animo, il secondo ciclista prodigioso in cerca di risposte alla solita, maledetta domanda “cosa vuoi fare da grande?”, e la terza, Tiziana, vittima sacrificale sull’altare del ritorno a casa (ah, quanti ne conosco che si sono puntati la pistola alle tempie per dare retta alla nostalgia), è stato molto, molto più divertente che passare una notte nello stanzino dei vermi.

Angelo O. Meloni

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