Luca Raimondi (pedagogista e scrittore) e Joe Schittino (compositore di fama internazionale e scrittore) li conosco da troppo tempo per non sapere che lo stramaledetto protagonista del loro romanzo Il grande chihuahua (pubblicato da Augh! edizioni) ci stesse [SPOILER]. Ci stavo proprio ammattendo: come si può costruire una storia con uno stronzetto così viscido, crudele, insignificante e allo stesso tempo pieno di sé, se non [SPOILER]? E infatti alla fine del romanzo [SPOILER]. Un po’ Zeno (ma senza la sua ironia) e un po’ Bateman (ma senza i suoi piccioli), il giovine, malmostoso universitario protagonista de Il grande Chihuahua non si fa certo volere bene, di sicuro non come il duo Raimondi-Schittino e il loro monologo interiore. La voce degli autori, infatti, sostiene l’opera con brio e con coerenza, raccontandoci un campionario di efferatezze, meschinerie e filosofeggiamenti iper-adolescenziali fino al lirismo delle ultime, bellissime pagine, le migliori del libro, a mio modesto avviso.
Ho incontrato Luca e Joe pochi giorni fa in una delle viuzze che si snodano per il centro storico del paesello siculiano in cui viviamo e dopo essermi guardato alle spalle – non si sa mai, poteva esserci anche il giovine studente psycho-universitario in agguato – ho posto loro alcune domande. Le riporto qui, in ordine di cazzeggio crescente. Se invece volete sapere a cosa corrispondano tutti gli [SPOILER], be’… saltate pure l’intervista e procuratevi una copia del libro.
Il grande chihuahua è il vostro secondo romanzo, dopo Cerniera lampo. Vedo che siete ancora tutti interi, quindi è andata bene. O siete come quei tipi a cui piace soffrire? Nonostante esempi clamorosi (i fratelli Strugackij, Gibson e Sterling, Pratchett e Gaiman, Dick e Zelazny, Asimov e Silverberg, i nostri Fruttero e Lucentini), la nota agenzia vox populi continua a rilanciare con “la letteratura è un affare per cuori solitari”. Voi come la vedete?
JOE: Interi o parzialmente scremati che sia, dopo la fatica de Il grande Chihuahua siamo esattamente come prima: felici. Prima di tutto di aver ritrovato intatta, pur nella diversità del pensiero e di quanto la vita ci ha portato a essere (artisti e tipacci poco raccomandabili: infatti non ci vuol mai raccomandare nessuno!) la nostra comunione di intenti, la nitidezza del nostro lavoro d’officina. Lavorare con Luca è un privilegio, oltre che uno spasso. Si tratta di un’alchimia, di una formula magica, che vede sullo stesso tavolino due autori perfettamente formati, indipendenti e dalle idee chiare (non alessandre o martine), che però hanno anche l’attitudine all’ironia, la disponibilità a mettersi in gioco e la saggezza di lasciarsi andare e ascoltare la voce l’uno dell’altro, filtrando il tutto in una pagina che è una “terza creatura”, completamente diversa dallo stile di entrambi. Poi, personalmente, adoro lavorare in squadra. Con la musica è cosa naturale: nella storia del melodramma, per esempio, sono rari i casi di compositori che hanno scritto da sé anche i libretti delle proprie opere. Io musicare i miei testi? Sarebbe come baciare uno specchio (ho un grande rispetto per gli specchi, anche se non mi sono mai domandato come mai). Senza contare che, di per sé, il lavoro di chi scrive in generale è legato in partenza a chi leggerà quelle pagine o eseguirà quella partitura, mettendoci del suo e spesso facendo meglio di noi. Non siamo i proprietari, ma solo i depositari delle nostre idee: alla fine, siamo soltanto gli autori. Di fatto, gli artisti come “cuori solitari” non sono mai esistiti.
LUCA: Sono figlio unico affetto da un lancinante “senso di solitudine” che mi coglie in qualunque circostanza, compresi i momenti che dedico alla scrittura. Adolescente, scrivevo tanto, ma non mi divertivo quanto avrei voluto, mi sentivo eccentrico e troppo diverso dai miei coetanei in tutt’altre questioni affaccendati. Mi sentivo dannatamente solo. A soli diciassette anni, però, ho vinto alla lotteria, trovando uno dei migliori alleati di scrittura che potessi sognare, un ragazzo ancora più eccentrico di me che aveva già pubblicato un libro di poesie ed era stato ospite decine di volte al Maurizio Costanzo Show. Parlo ovviamente di Joe con cui, in appena una ventina di giorni del ‘94, ho partorito Cerniera lampo, un sapido romanzo di de-formazione che l’anno scorso, esattamente vent’anni dopo la prima pubblicazione (che risale al ’96) è stato rieditato per le Edizioni Il Foglio di Gordiano Lupi. In questi vent’anni ci eravamo un po’ persi, “ognuno a rincorrere i suoi guai”, e ritrovarsi ha rappresentato un piacere così intenso che abbiamo subito ripreso a lavorare insieme, stavolta a un abbozzo di romanzo di tanti anni fa, rimasto imperfetto e incompiuto. Lo abbiamo usato come punto di partenza per rimetterci al lavoro e alla fine avevamo tra le mani un romanzo tutto nuovo e contemporaneo, che è Il grande chihuahua. Le letteratura per “cuori solitari”? In musica ci sono i solisti e le band, non vedo perché non si possa fare altrettanto in letteratura. Nel libro si citano spesso i Beatles, uno dei migliori lavori di squadra di tutti di tempi. Lennon e McCartney (ma anche Harrison e persino Ringo Starr) hanno prodotto ottime cose senza l’altrui contributo, ma certamente i Beatles al completo erano tutta un’altra storia.
Mi rendo conto di aver citato nella precedente domanda solo gente che di riffa o di raffa ha avuto a che fare con fantasy e fantascienza. In effetti non c’entra niente con il vostro libro, ma siccome tra i pochi lettori motivati ci sono gli appassionati di Sci-fi e simili, forse queste righe ci garantiranno un pietoso click in più. A meno che non vogliamo davvero sperare nell’interessamento dei poseur che infestano la Rete e alcuni quartieri alla moda delle grandi città. Quella è gente che vuole solo pubblicare, pubblicare, pubblicare. Non gliel’aveva detto nessuno che bisognava pure leggere. Ma a proposito, voi che state leggendo, carusi? Per favore non fatemi anche voi la parte “leggo solo classici”.
JOE: Leggo di tutto, sono disordinato e ne sono fiero. Sono innamorato di Liala: ha creato un monumento letterario in cui ero(t)ismo e leggiadria si mescolano in una lingua di singolare dolcezza e raffinatezza. Non è solo chincaglieria da bancarella. Adoro Céline (e Caproni geniale traduttore: meno il poeta) e il Cocteau de La voix humaine e del Libro bianco. Mi commuove Gadda, mi intristisce Bassani, mi inquieta Houellebecq. Else Lasker-Schüler è ospite fissa del mio comodino col suo Blaues Klavier e mi augura la buonanotte da anni. Uno ganzissimo del XVIII secolo? Matthias Claudius (Die Sternseherin Lisa o la più celebre La morte e la fanciulla). Poi trovo estremamente toccante la lettura di Rainer Kunze, Jürgen Fuchs e in generale degli autori della ex DDR con la loro esperienza: con uno di loro, di quella generazione (Klaus Rohleder, il “Beckett del Vogtland”, Bundesverdienstkreutz 2011, ma a suo tempo sottoposto a minacce, perquisizioni e boicottaggi dal regime) ho avuto tra l’altro l’onore di collaborare per alcuni progetti di teatro musicale (naturalmente ignorati qui da noi). E, in ultimo, Arnold Schönberg, un grande compositore che è anche un brillante scrittore: lo stile letterario della Harmonielehre, ma in generale di tutti i suoi scritti teorici, è di una esattezza ed eleganza ineguagliabili, tale per cui anche i profani possono comprenderlo e godere dappertutto, persino nel cervello.
LUCA: Come Joe, negli anni ho accumulato libri e interessi, diventando un lettore sempre più disordinato e caotico, per cui tengo decine di libri sul comodino, non necessariamente di narrativa, e la sera ne apro uno in base all’umore, riprendendo lì dove ho inserito il segnalibro. Tra questi libri comunque non mancano mai uno Stephen King, da sempre il mio autore preferito, un autore italiano contemporaneo (va bene l’esterofilia, va bene leggere i classici, ma anche tenersi informati sulle più recenti tendenze nostrane è necessario), un autore polacco (mia moglie è polacca e da un decennio esploro quella meravigliosa cultura mitteleuropea) e qualche raccolta di racconti. In questo momento frullo allegramente la lettura de Le nostre assenze di Sacha Naspini, Notte, giorno e notte, romanzo polifonico di Andrzej Szczypiorski e divoro un Mammut della Newton Compton dal titolo Storie di vampiri, un migliaio di fitte pagine con dentro settanta autori e il meglio della narrativa breve sull’argomento, non vedendo l’ora che esca, a gennaio per l’editore Morellini, l’antologia da me curata dal titolo I signori della notte. Storie di vampiri italiani. L’horror è un genere a cui tengo molto, che fin dall’adolescenza mi porta lontano con l’immaginazione, ma anche vicino ai grandi tempi dell’esistenza, compreso il più grande, che paradossalmente è il tema della non-esistenza, cioè la morte. Non disdegno ovviamente anche gli altri generi, dalla letteratura “colta” (come se l’horror non lo sia), al giallo, dalla fantascienza che hai citato alla narrativa ucronica e distopica: il Nobel a Ishiguro mi ha spinto a riprendere in mano un libro che avevo acquistato tempo fa e poi colpevolmente ignorato, Non lasciarmi, che appartiene a quest’ultimo filone.
Non c’è due senta tre? O vi fermerete qua? Non vi siete mai chiesti anche voi come sia possibile che ci sia tutta questa gente che scrive, a Siracusa? L’Italia intiera è invasa da una quantità così mostruosa di romanzi che a leggerli tutti ci vorrebbero cento vite. Almeno voi, o saggi e virtuosi amici, frenerete la vostra vis creativa? O anche voi siete stati sopraffatti dall’urgenza espressiva?
JOE: C’è sempre stato, da che mondo è mondo, chi vuol dire qualcosa e chi ha qualcosa da dire. Il sistema democratico nell’arte non funziona: essere creativi non implica l’essere artisti. Una cosa è il bricolage, un’altra è lo stile, la ricerca, l’intuizione. E altra cosa è anche il garbato buon senso di ritirarsi in buon ordine, se e quando si capisce che magari non si è cavato un “buco dal ragno”. Il discorso è vetusto. Una volta era più difficile, oggi chiunque dispone di una tastiera e di un software. E quindi, chiunque scrive. Florence Foster Jenkins diceva: “potranno anche dire che ho cantato male, ma nessuno potrà dire che non ho cantato!”. Ma non mi dà fastidio, anche perché io stesso potrei essere una Florence delle tante. Ma sì, che scrivano pure tutti! Siamo un popolo di poeti, ci piace fare poesia e dunque andiamo a capo, se ciò serve a darci per un attimo l’illusione di aver prodotto qualcosa di buono, di utile, e dunque di valere qualcosa. Magari sarà il soggetto del nostro prossimo romanzo!
LUCA: Ci sono rispettivi altri progetti all’orizzonte che necessitano di essere seguiti, ma non è escluso che torneremo un giorno a scrivere un terzo romanzo: un’ispirazione ci era persino arrivata, chissà se un giorno o l’altro riusciremo a concretizzarla. Sinceramente non so perché si scriva e si pubblichi così tanto, a Siracusa come altrove, né m’interessa. Io sono in buona fede, sento addosso non dico un innato talento ma di certo una vera passione, una vocazione che mi ha messo in testa di costruirmelo, quel talento, pian piano, con fatica. Pubblicare anche libri a volte “sbagliati” fa parte di quella gavetta che ho sentito di dover fare. Pubblicare è la logica conclusione del processo di scrittura, un processo di comunicazione che necessita di un pubblico, foss’anche di soli venticinque lettori. E se qualche editore pensa di arrivare a un pubblico più ampio con il mio libro, gli lascio volentieri la sua speranza, condividendola. Certamente gli editori dovrebbero darsi da fare per ridurre la quantità e alzare la qualità, ma un editore è prima di tutto un business man e fa i suoi calcoli secondo criteri economici che non mi appartengono. Mi piacerebbe che un editore sentisse non solo la necessità di un immediato guadagno, ma anche il dovere morale di sfornare libri che, una volta ritrovati tra le macerie di un olocausto nucleare tra mille anni, potessero fornire qualche traccia della nostra esistenza, del nostro tempo, essere dei messaggi in bottiglia per i posteri. Mi piacerebbe scrivere un libro, un giorno, che fosse funzionale a tale scopo. Invece con Joe ho scritto Il grande chihuahua e chissà cosa penseranno di noi i posteri! Diranno che nel 2017 eravamo tutti matti! E chissà, forse avranno ragione loro.