A cura di: Graziano Carugo Campi
Avvertenza: Questo è un articolo semi-serio. I contenuti in esso espresso non rispettano necessariamente il punto di vista della redazione di Senzaudio o quello dell’autore, che forza concetti e stereotipi con l’intento di intrattenere e creare dibattito.
“P2 Macht Frei” (cit.)
Settimana scorsa, penso sia stato ben documentato dai media, Beppe Grillo ha postato una parodia di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, in chiave politica. In essa, venivano citati i problemi del nostro paese, o almeno quelli che lo affliggono secondo molti. La cosa ha scatenato un putiferio, compreso quello del portavoce della comunità ebraica italiano, che ha usato termini come “indegno” e “vergogna”. Ovviamente tutti i partiti politici e quasi tutti i media hanno stigmatizzato la cosa, attaccando Beppe Grillo e il Movimento cinque stelle.
Leggendo la poesia “rieditata” da Grillo, i termini “indegno” e “vergogna” non dovrebbero essere attribuiti al suo autore. Immaginate se Primo Levi avesse scritto questa poesia in tempo fascista: sicuramente avrebbe subito le stesse pressioni da parte di un regime che in quella poesia usciva svilito a livello etico e morale. A mio parere, “indegno” e “vergogna” sono due termini da associare a quanto di vero in quella poesia appare. Fosse vero che i giornali italiani sono al soldo dei partiti, sarebbe indegno e vergognoso, fosse vero che mafia e politica vanno a braccetto, sarebbe indegno e vergognoso, e via dicendo.
In buona sostanza, se ciò che è scritto è vero, secondo me, da condannare dovrebbe essere “il sistema” di cui si parla, non chi lo denuncia. Se non fosse vero, si dovrebbe entrare nel merito delle accuse e smentirle, invece che gridare nella speranza che il baccano possa far dimenticare il succo del problema, ovvero la sua denuncia. Non entro nel merito della questione politica: non mi interessa sapere chi ha ragione o chi no: la questione, dal mio punto di vista, ovvero da quello di uno che prova a far satira, riguarda un termine diverso quindi da “indegno” e “vergognoso”, riguarda il termine “opportuno”.
Quanto è opportuno richiamare un argomento doloroso per fare satira? Quando si tocca quella linea di demarcazione che sta tra battuta salace e stupido qualunquismo?
E’ una risposta difficile da dare. Cercate in America, e faticherete a trovare qualcuno disposto a scherzare sull’11 settembre, ma anche sulla Shoah: non a caso Steven Spielberg rimase perplesso (per non dire scandalizzato) quando “La vita è bella ” di Benigni vinse un Oscar proprio trattando l’argomento dell’Olocausto come l’avrebbe trattato Charlie Chaplin, ovvero non con la deprimente e assordante forza del dolore trasposto nel bianco e nero di “Schlinder’s List”, ma esorcizzando il tutto attraverso la poesia del sorriso, che non ti fa staccare gli occhi dallo schermo regalandoti al tempo stesso nell’amara lacrima finale la consapevolezza della mostruosità dell’animo umano distorto dalla logica del nazismo, che oggi può e deve essere attualizzata in un mondo fatto di sempre più forti pulsioni assolutiste. A voler guardare, la stessa poesia di Primo Levi è attuale oggi perchè non è la condanna solo del passato, ma rappresenta la condanna dell’ignavia umana di fronte alle ingiustizie. Non è una poesia scritta solo per ricordare la shoah, è una poesia “umana”, che vuol ricordare all’umanità quanto accaduto e per ammonirla su quanto l’ignavia possa essere causa di un nuovo “olocausto”.
La verità sulla satira, o meglio, la mia verità sulla satira, è che essa confida nell’abilità del lettore di essere partecipe attivo, con la consapevolezza che non tutto è ciò che sembra o come viene raccontato. La satira, unita alla mancanza di buon senso, può solo creare un’esperienza esasperante, offensiva e in ultima analisi, umiliante per l’intelligenza di chi non la comprende, non per quella di chi la fa. Non tutta ovviamente: diversi scrittori spesso sbagliano tempi e modi, finendo per questo vittime di furiosi attacchi via social network o di querele, ma questo dipende dalla sensibilità e dall’intelligenza dell’autore stesso e dalla “iper-sensibilità” di un “audience” che troppo spesso appare alla ricerca dello “scandalo” per scatenare i propri istinti più bassi e sfogare la propria rabbia repressa da navigatori della rete.
A volte basta anche affibiare a un personaggio ignaro una frase da lui pronunciata e poi godersi lo spettacolo mentre la sua foto fa il giro del mondo grazie al volonteroso popolo del web. Quando si parla di satira, in ultima analisi, bisogna considerare che spesso le parole non vanno prese in maniera letterale, ma servono solo a stimolare la coscienza critica del lettore, spingendolo a ribellarsi di fronte a qualcosa di palesemente ingiusto. Dubitare del fatto che le persone non possano capire il senso di quanto scritto, o peggio ancora mistificarlo per attaccare l’autore (per fini personali) rappresenta quanto di più offensivo ci possa essere verso chi ha avuto modo di leggere quel pezzo.
“Non sono abbastanza intelligenti per capire quello che hai scritto”
Questo è il succo della critica di chi si oppone a una satira che di proposito espone concetti stereotipati e li forza per ottenere una reazione da parte del lettore. Persino nel titolo di “Se questo è un uomo”, si può cogliere una vena satirica da parte di Primo Levi, contestualizzando. Volendo fornire un altro esempio, pensiamo agli ebrei, agli scozzesi e ai genovesi, che tutti sappiamo essere tirchi: una battuta in tal senso indubbiamente scatenerebbe polemiche anche se essa rappresenta una verità assoluta. Non di meno, per dimostrare il contrario, un ebreo, un genovese o uno scozzese che legge queste righe potrebbe sentirsi in dovere di mandarmi un bonifico a casa, per reagire a quella che a lui sembra una bugia qualunquista: se il bonifico è inferiore ai cento euro, io avrò dimostrato che è tirchio, se è superiore, lui avrà dimostrato di non essere tirchio. Ma magari un po’ pirla sì. Nel caso “Primo Levi”, l’impressione è che la satira sia stata decontestualizzata per fini politici almeno quanto la poesia sia stata reinterpretata per altrettanti fini politici ma l’errore sta in chi non è entrato nel merito di quanto scritto, mentre chi ha scritto si trova a dover rispondere a motivi di “opportunità”.
Quando è opportuno fare satira?
Chi fa satira, ha bisogno che nei suoi lettori ci sia fiducia. Fiducia nell’intelligenza dell’autore, nella sua buona fede. Chiunque fa satira sa bene che ci sono modi più facili per far ridere le persone e modi più seri per invitarle a riflettere ma sceglie un percorso differente, che regali un sorriso nel momento in cui comunque bisogna riflettere. Sceglie di stimolare la mente di chi lo legge. E lo fa scegliendo un metodo molto delicato, correndo spesso il rischio che quanto scrive venga mistificato dai suoi detrattori o semplicemente da parte di chi è oggetto della satira stessa. La satira comporta, a volte, che la battuta renda chi la fa bersaglio della critica ma occorre una piccola dose di buon senso per scindere quello che l’autore dice come “attore” del suo pezzo, da quello che l’autore realmente pensa. Per questo, ogni volta che si fa satira, oltre a richiedere fiducia nei propri lettori, bisogna pure avere fiducia in essi e in se’ stessi, perchè in se’ stessi bisogna trovare la forza per reagire di fronte agli abusi della disinformazione. Per concludere, visto che sono andato lungo e che è ora di tagliare un po’, se la domanda è cosa è opportuno trattare quando si tratta di satira, la risposta è una sola:
Non parlate male degli italiani, che sono tutti mafiosi, non parlate male dei mafiosi, che sono tutti politici, non parlate male dei politici, che sono tutti ebrei, non parlate male degli ebrei, che se no vi spediscono nella striscia di Gaza.