Colapesce fa un nuovo (per me bellissimo) disco, Infedele, tira fuori un altro (per me bellissimo) video, firmato Ground’s Oranges, ed eccoci di nuovo qua, che dopo il concerto “mi sento totale”. Grande show l’altra sera, mercoledì 24 gennaio 2018, al teatro Odeon di Catania, fin dall’apertura con la voce e la chitarra di Carlo Barbagallo. E poi via con la band di Colapesce (bravissimi): lo spettacolo comincia con un pezzone di grande impatto, rock-elettronico-qualcosa, e va avanti tra vecchie e nuove canzoni, secchiate di intimismo ed esplosioni di chitarrone/sassofoni/tastieroni più una cover di Battiato che ci ha fatto venire i lucciconi agli occhi. In genere a questa sorta di riunioni ricreativo-concertistiche trovi l’intellighenzia carbonara dei duri e puri, quelli per cui la musica è una questione di vita o di morte. Stan tutti lì pronti a censurare chiunque di loro abbia tradito la causa e avuto la disgrazia di vendere mezzo disco. Tanti piccoli Savonarola cresciuti a pane e rock anni ’90, farcito con nichilismo q.b. e con l’ipocrisia maledettista di quei poseur che predicano bene e campano con i soldi di mamma e papà. Quant’è ridicolo l’odio sia di questi attempati, avviliti censori sia dei loro giovini epigoni animati dagli astratti furori. Questi ultimi hanno una possibilità di salvezza, ma se butteranno giù la pillola sbagliata rimarranno imprigionati nell’incubo, nel rancore, costretti a leggere libri che vogliono cambiare il mondo e musica che vuole migliorarlo. Così è la vita, ognuno artefice del proprio destino, o per meglio dire della pillola che butterà giù. Ma quel che voglio raccontare qui, in questo resoconto d’una serata ordinariamente straordinaria, in verità è un’altra cosa, perché il miserabile spettacolo che offriamo ogni giorno sui social network è rimasto al di fuori del teatro, confinato nel mondo virtuale. A Catania, insomma, ha vinto il candore, la lineare bellezza d’una musica semplice ma stratificata, orecchiabile ma anche complessa, strutturata e pervasiva. Il nuovo disco di Colapesce è stato accolto e raccontato dalla critica con argomentazioni di questo tenore, si legge qua e là. E non entro nel merito perché sono un fan e non un critico musicale, per me il disco – come dicevo su – è semplicemente bello e bellissimo. Ma sono argomentazioni che nel passaggio dall’ascolto casalingo al concerto sono state confermate dai fatti, dalle sensazioni, dalle reazioni di una platea partecipe ed emozionata. Sia la paccottiglia per fedelissimi sia il rancore dei mistici sono rimasti al di fuori della sala. L’unica cosa che contava era la musica. Ed è stato troppo forte sentirsi “totale”.
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Gennaio 2018
Inserito tra i 100 migliori libri del 2016 dalla New York Times Book Review e finalista al Man Booker Prize, il quarto libro di David Szalay (il primo in Italia, portato da Adelphi) non è in realtà un romanzo. Ma non è neanche una raccolta di racconti, almeno in senso stretto. I nove capitoli di cui è composto sono altrettante storie, sì slegate tra di loro e senza apparentemente nulla in comune. Ma è proprio su quell’apparentemente che si gioca il senso ultimo di quest’opera. Infatti ogni episodio appartiene a una precisa età della vita, dall’adolescenza con cui si apre “Tutto quello che è un uomo”, fino alla vecchiaia dal sapore della morte imminente, e qui forse possiamo dare un senso al titolo (la traduzione italiana ne è letterale), dalla valenza di sintesi. Inoltre la varietà si gioca anche sulle ambientazioni – e in questo senso è un libro “europeo”, forse uno dei pochi scritti finora – dove ci spostiamo tra Inghilterra, Francia, Belgio, Grecia, Praga, Venezia, la Toscana, la Croazia e così via, in ordine sparso. Pure i background di provenienza ci sono familiari: lo studente in interrail, il cervello fuggito in un altro paese, il pappone moldavo, l’oligarca russo, il pensionato inglese che va a svernare/sopravvivere sulla costa croata, tutti strettamente connotativi del vivere in Europa, oggi e ora. Szalay punta l’obiettivo, nelle sue storie che non sono storie ma più momenti di passaggio – come l’entomologo che osserva una certa fase della vita degli insetti, cominciando e finendo arbitrariamente la finestra temporale – sulle miserie e debolezze umane, la cui portata si gonfia e sgonfia attraversando le varie età, senza un apparente continuum logico ma semplicemente come sono nel momento dato. Possono essere piccoli e grandi affronti a se stessi – non cogliere l’occasione propizia, o invece coglierla ma sacrificandosi alla logica del meno peggio, non agire per viltà o invece agire proprio per quella, e così via – e hanno in comune il voler esplorare, da parte dell’autore, la grettezza umana, indagandone perimetri e circonferenze, per darne non tanto una dimensione esatta quanto una suggestione, l’idea che ci appartengono tutte. Fino alla paura/debolezza suprema, quella della morte, protagonista dell’ultimo episodio, dai vaghi accenti rothiani e fra i più convincenti. Lo stesso stile di Szalay si presta al gioco, seguendo traverse sia parallele che intersecanti ed esprimendosi a volte in maniera piana a volte in elaborati giochi virtuosistici-sperimentali, supportati anche a livello tipografico, ma cerca sempre di tenere la barra su un piano alto ed elegante, aulico verrebbe da dire, quasi in contrapposizione alla materia oscura di ciò di cui scrive. Come a dirci che, alla fine, questo è tutto quello che è un uomo.
Traduzione di Anna Rusconi
David Szalay (nato nel 1974 a Montreal, in Quebec) è uno scrittore inglese: nato in Canada si è poi trasferito nel Regno Unito l’anno successivo e da allora vive lì, dove ha studiato all’Università di Oxford. Szalay ha scritto numerosi episodi radiofonici per la BBC. Ha vinto il Betty Trask Award per il suo primo romanzo, Londra e il Sud-Est, insieme al Geoffrey Faber Memorial Prize. Da allora ha scritto altri due romanzi: Innocent (2009) e Spring (2011). Una raccolta di racconti collegati, All That Man Is, è stata nominata per il Premio Man Booker e ha vinto il Gordon Burn Prize nel 2016. Szalay è stato incluso nella lista dei migliori 20 scrittori britannici under 40 del The Telegraph del 2016, così come nella lista 2013 dei migliori giovani romanzieri britannici della rivista Granta.
Non tutti gli esordienti sono uguali. Per dieci esordienti che non vedono al di là del proprio naso, raccontano la storia del proprio ombelico e che affondano nei meccanismi triti e ritriti ce n’è uno che cerca di guardare oltre. Uno che per raccontare se stesso racconta un paese, racconta delle persone, racconta un modo di vivere.
Quello che spero abbiate già tra le mani è un libro particolare. L’autore lo ha definito un romanzo per quadri, la definizione che forse vi suonerà più familiare è “romanzo per racconti”. Il libro è composto quindi da una serie di racconti che hanno per protagonisti un nucleo di personaggi le cui traiettorie si intersecano tra loro. Il fulcro principale è composto da Davide, Valerio e Anela. Lo possiamo considerare un triangolo atipico in quando uno dei tre elementi brilla per la sua assenza. L’insieme dei racconti parla di un paese, Fabbrico, un paese che esiste e che fa da casa all’autore. Il primo racconto ci fa conoscere Davide e Anela, il loro rapporto travagliato e un amore che sembra scheggiato. L’ultimo racconto vede ancora Anela e Davide mentre il loro amore è in crescita. I racconti non sono temporalmente sequenziali. Veniamo trascinati in avanti di quattordici anni e sballottati indietro di venti. Questa costruzione aumenta l’impatto emotivo sul lettore. Il motivo è dato dal fatto che in alcuni punti noi lettori sappiamo più di quello che sanno i personaggi. I loro desideri di felicità ci sono noti e ci è noto anche dove tutto questo andrà a finire.
Questa è la parte relativa alla trama. Poi c’è tutto un discorso da fare sullo stile di Roberto Camurri. Confesso di aver letto “A misura d’uomo” anche con l’intenzione di capire in maniera più approfondita possibile la voce di questo esordiente. Camurri ha una voce ruvida, che graffia la superfice. La voce malinconica di un pianista da piano bar. Riesce a padroneggiare con cura i cambi di ritmo, le lunghe descrizioni vengono spostate via da frasi brevi e ficcanti. Poi, quando la frase sembra finita, ecco che arriva un aggettivo, un unico aggettivo perfetto. Come se l’autore ritornasse su quella frase e avesse l’urgenza di completarla, come se la comprensione perfetta della scena arrivasse all’improvviso e fosse totale.
Il ritmo complessivo del testo non ha cadute. Non ci sono “quadri” deboli. In parte questo è dovuto alla scelta della “scaletta”. I racconti probabilmente potrebbero essere disposti in maniera diversa, ma in questo caso il risultato non sarebbe stato lo stesso. Personalmente approvo la scelta di iniziare e finire con Anela e Davide, di lasciare che il resto si scatenasse al centro. Seguire quindi Valerio nella sua crescita, Mario e il rapporto con Davide, il partigiano Giuseppe e la Bice e tanti altri personaggi che non possiamo fare a meno di vedere davanti a noi.
E poi c’è l’amore. L’amore nei confronti dei personaggi. Quell’empatia che ti porta a non volerli più abbandonare, a tenerli vicini e considerarli amici. Questo forse è un discorso poco consono quando si parla di libri. Però a me piace sentire che l’autore ha amato tutti i suoi personaggi, mi piace sentire il rispetto nei loro confronti. Anche perché attraverso questo amore Camurri riesce a far riverberare in noi delle emozioni, emozioni che rendono ancora più coinvolgente l’impatto delle sue parole.
Quello che fa Camurri è descrivere il vuoto. Un vuoto che via via prende la forma di una mancanza di relazioni, di una mancanza di futuro, di cultura, di prospettive. Descrive quel vuoto e quell’angoscia tipica di chi vive in un piccolo paese che sembra avere dei confini invisibili. Un vuoto all’interno del quale, l’unico modo per non perdersi, è quello di aggrapparsi alle altre persone e tenere duro. Anche se a volte non basta.
Roberto Camurri è nato nel 1982, undici giorni dopo la finale dei Mondiali a Madrid. Vive a Parma ma è di Fabbrico, un paese triste e magnifico di cui è innamorato forse perché è riuscito a scappare. È sposato con Francesca e hanno una figlia. Lavora con i matti e crede ci sia un motivo, ma non vuole sapere quale. Scrive da pochi anni, anche se avrebbe voluto scrivere da sempre. A misura d’uomo è il suo primo romanzo.
Nostalgia canaglia
written by Angelo Orlando Meloni
Avete presente il comodino? Quel nobile mobile su cui erigiamo la piramide di libri? La mia piramide è crollata e alla sua base ho trovato Sinapsi di Matteo Galiazzo, raccolta di vecchi racconti pubblicati per la prima volta in volume da Indiana nel 2012. Il che per i tempi dell’editoria corrisponde a diecimila anni fa circa. Non chiediamoci che fine abbia fatto l’editore, chiunque sia in vena lo potrà scoprire in Rete; e non chiediamoci più che fine abbia fatto l’autore, uno dei più rappresentativi negli anni ’90 prima di ritirarsi dalle scene “misteriosamente”. Chi ha letto il libro già ne conosce il motivo, una soluzione al dilemma che rende onore al rasoio di Ockham. Ma allora, se una soluzione al dilemma c’è, cos’altro possiamo chiederci, noi inesausti cercatori di non-so-che, fuffa e novelle? Per esempio se sia giusto continuare a parlare di libri come se fossero formaggini. Non so più quanto tempo fa l’ho scritto la prima volta, sul supplemento di un quotidiano, su una fanza, su… boh. Comunque sia, i libri, quelli buoni, non hanno una data di scadenza. Non come la mozzarella. E questo è uno di quelli buoni. Oddio, forse qualcuno tra i racconti di Sinapsi ha perso qualcosa immolandosi sull’altare del post-qualcosa, ma se non avete mai letto un racconto di Matteo Galiazzo penso che vi siate persi qualcosa di più. Che cosa, esattamente, non saprei dirlo, ma qualcosa. Leggere Matteo Galiazzo mi fa venire in mente i personaggi di un mastodontico libro di Douglas Hofstadter, non so se avete presente, Achille, la tartaruga, il formicaio e via discorrendo. Un trip di quel tipo, insomma, molto meno illuminante e decisivo per la formazione culturale (non me ne voglia lo stesso Matteo Galiazzo), ma di sicuro fantasioso, stimolante. Penso al racconto “Il ferro è una cosa viva”, ad esempio, e mi vengono in mente Tristi tropici, il crucimorfo di Dan Simmons, un sacco di cose che non ci azzeccano niente, ma vi ho già detto che questa è roba buona. E subito m’assale la nostalgia canaglia, d’un tempo in cui c’era la letteratura “pulp”, Ranxerox su Rai 3, i grandi editori pubblicavano cose strambe e pure io ero giovane e strambo, soprattutto non avevo il mal di schiena ed ero capace di eseguire un perfetto terzo tempo in sottomano anche con la sinistra.
Al contrario di Matteo Galiazzo, Fabio Genovesi ha esordito con un piccolo editore, Transeuropa, per poi fare il salto con Mondadori. Il suo ultimo libro è Il mare dove non si tocca, storia di un bambino con troppi nonni, uno più strambo (aridanghete) dell’altro: un racconto di crescita brillante e arguto, illuminato da una barbaglio di tenerezza che risplende in ogni pagina, le più buffe come le più toccanti. Sono passati parecchi anni dal suo esordio e Fabio Genovesi si conferma ancora una volta. Non blandisce il lettore con amenità strappalacrime né cerca di stenderlo con l’accademichese o di darsi arie con trovate postmodernine e vezzi che nascondono astratti furori, perché è un signor scrittore, un cavallo di razza, e basta sfogliare qualche riga dei suoi libri per rendersene conto, ora come allora, sia quando ci raccontava dei tossici in Versilia rock city sia adesso che narra una storia di formazione con il più grande editore italiano. In conclusione, mandando al macero la nostalgia canaglia e tutti i libri tremendissimi che abbiamo letto a vent’anni perché faceva figo, una domanda sorge spontanea e questo sito, Senzaudio, su cui scrivo orgogliosamente da qualche anno, mi pare una buona sede per esplorarne le pruriginose scaturigini. Il libro “indie” è transustanziale? Quando cambia editore, lo stesso romanzo o racconto, intendo, diventa qualcos’altro? Se un autore “underground” ha successo e pubblica con una grande casa editrice, all’improvviso le sue opere – anche se il contenuto è rimasto lo stesso – non sono più “indie”? Ai teologi più raffinati l’ardua sentenza.
Pasquale Panella non si definisce uno scrittore, ma neanche poeta e paroliere. Rinuncia a qualsiasi etichetta, però non declina mai l’invito che le parole gli rivolgono e le sfida a viso aperto.
È appena uscito per Miraggi edizioni Poema bianco. Un testo di controversi, ma anche di antipoesia pura in cui Panella si cimenta con la demolizione di tutti i luoghi comuni della scrittura.
In un soliloquio antilirico («perché nel soliloquio c’è il silenzio, che nella realtà ossia nell’atmosfera del pianeta Terra non esiste») qui si legge ma soprattutto si sente la forza della negazione, che dovrebbe essere della scrittura la sua forza dirompente.
Poema bianco è una collezione di negazioni. In ogni parola «la doppia negazione è prepotente».
Negazioni in buona compagnia di paradossi di cui il bianco è la metafora che richiama alla mente il senso di un’ossessione, quello della pagina non scritta.
« … un libro bianco sulla mia / fame del mondo» potrebbe essere questa la definizione dell’indefinibile Poema bianco.
Ma la nostra è solo un’ipotesi. Panella scrive con un ritmo incalzante le parole di questo poema, si lascia travolgere dall’ascolto delle sue stesse parole e ne propone uno a chi legge perché « Alle volte si scrive /sapendo solo cosa /non si scrive / esattamente /o cosa esattamente / non si scrive / (pare la stessa cosa / ma non è la stessa)».
Davanti alle parole la scrittura diventa spesso un vizio e quasi sempre chi scrive non si mette in ascolto che del proprio ego.
Panella si affida a tutte le negazioni anticonvenzionali dello scrivere: «Il bello delle parole scritte / è che, intanto, io posso tacere/ mente esse fanno il loro dovere / (e intanto io posso piangere ridendo / come quando piove con il sole)».
Nelle soluzioni impensate delle parole si muove la riflessione dell’autore. Il suo Poema bianco, come giustamente scrive Lucio Saviani nella prefazione, è un rivolgersi la parola come rivolgendola a un altro.
Tra una negazione e una mancanza nella scrittura bisogna dissolvere l’ego e lasciare spazio all’altro. «Come sarebbe il mondo se noi veramente sapessimo, / potessimo ascoltare il parlar da solo dell’altro».
Poema bianco è un soliloquio antiretorico sull’ inutilità utile delle parole. Un testo antipoetico e impoetico in cui prevalgono le esagerazioni della scrittura. Pasquale Panella ci regala un testo illuminante che decostruisce tutte le ipotetiche certezze dello scrivere.
Restiamo così quando ve ne andate.
Le prime domande che mi vengono sono: restiamo chi? Chi è che se ne va?
Ho sperato che leggendo il libro avrei avuto le risposte che cercavo. Sono arrivate, ma sono arrivate anche tante altre domande. Quando un libro moltiplica le domande è un ottimo libro.
La prova precedente di Cristò, quel “La carne” edito da Intermezzi che tanto mi era piaciuto qui è stato bissato. Se ne “La carne” Cristò sembrava giocare con i diversi piani di realtà, con il sogno e la veglia, nel caso di “Restiamo così quando ve ne andate” il gioco cambia e resta altrettanto divertente. Questa volta Cristò agisce sul tempo e sul libero arbitrio.
Francesco lavora in un supermercato perché, in un certo senso, è costretto a proseguire la dinastia del padre. Un padre che gli aveva fatto amare il pianoforte e poi, all’improvviso lo ha messo su una strada bene più concreta. Una madre che lo chiama di nascosto dal padre perché, nel frattempo i rapporti tra genitore e figlio si sono deteriorati perché Francesco, quel lavoro al supermercato lo digerisce a fatica. Lo hanno messo a contare le monetine e ogni tanto lo mettono alla cassa perché non si possa parlare di mobbing, ma Francesco è un bersaglio.
Francesco ha un amico scrittore, un collega del supermercato, che ad un certo punto del libro si sacrifica e dà il via ad una nuova vita nella vita. Per finire, abbiamo un triangolo amoroso composto dal protagonista, da Monica e da Fatima, la ragazza poco più che maggiorenne che abita davanti all’appartamento di Francesco.
Perché ho voluto riassumere la trama? Perché vi rendiate conto che al di là degli elementi che possono costruire una trama quello che rende un libro speciale è ciò che lo scrittore fa di questi elementi.
Il libro è diviso in parti. Una parte scandita in giorni, una parte scandita in ore in cui ad agire è il “pensiero pomeridiano” e una parte scandita in mesi. C’è poi un’ultima parte che rivela a noi lettori affamati chi sono quelli del “restiamo così” e chi sono quelli del “quando ve ne andate”.
Francesco ha l’impressione che sopra di lui ci sia qualcuno, uno scrittore forse, che sta raccontando la sua vita. Gli sembra di essere parte di un libro. Anche il colpo di scena che coinvolge il collega dell’ufficio gli sembra qualcosa di studiato a tavolino. Qualcosa messo lì per il pubblico. Ma Francesco si sbaglia, anche se forse non di molto.
Cristò ha scritto un libro che racconta perfettamente gli anni in cui viviamo. E’ un manifesto del presente. Cristò è stato capace di condensare in un romanzo di poco più di duecento pagine alcune delle angosce più terrificanti della mia generazione e di quelle a venire. Le domande che pone a noi lettori sono alcune delle domande che ingrigiscono i nostri capelli. Ha senso tenersi un lavoro che non amiamo solo perché allo stato attuale di posti disponibili ce ne sono talmente pochi che non solo ti viene detto che è da malati di mente mollare quello che hai avuto la fortuna di trovare, ma ti spiegano che anche sognare qualcosa di più affine alle proprie caratteristiche è assurdo? Mi devo piegare? Mi devo adattare? Devo arrivare alla fine dei miei giorni lastricandoli di rimpianto?
E poi, siamo davvero sicuri che le scelte che facciamo siano dettate da una parvenza di libero arbitrio e non siano invece mosse che ci è consentito fare all’interno di un sistema chiuso che ci controlla? Come topi da laboratorio dentro un labirinto.
Queste domande hanno profondamente turbato i miei sonni perché riverberano qualcosa che già io possiedo dentro di me. Cristò con “Restiamo così quando ve ne andate” agisce su questi punti oscuri e li sollecita. E se fino a poco prima riuscivamo a conviverci quasi ignorandoli ora diventa impossibile.
Facciamo il tifo per Francesco, speriamo che anche se il suo destino sembra essere modificato da un’entità superiore almeno ciò che è stato deciso per lui sia qualcosa di buono. Che magari sia musica.
Detto questo mi resta da dire solo un’altra cosa. Lo stile di Cristò è eccellente. Ama giocare con diversi piani, ama mescolare reale e irreale senza darci la possibilità di comprendere fino in fondo da che parte dello spettro ci troviamo noi. Con la sua bravura rende tutto plausibile, con la sua scrittura diventa tutto vivo.
Cristò ha pubblicato quattro romanzi brevi: Come pescare, cucinare e suonare la trota, L’orizzonte degli eventi, That’s (im)possible, La carne. Suoi contributi sono apparsi su alfabeta2, Artribune e minima et moralia.
Gore Vidal – L’età dell’oro
written by Gianluigi Bodi
La cosa che spaventa di più leggendo Gore Vidal è che può aver scritto anche un libro nel 2000 e può anche averlo ambientato tra il 1939 e il 1954, ma il suo essere attuale mette i brividi. Viene da pensare che non ci sia stata una vera evoluzione dei costumi, della società e degli esseri umani che che tutti noi stiamo vivendo in un’unico fotogramma congelato nel tempo che non muta, ma sbiadisce.
“L’età dell’oro” (The golden age nell’edizione originale) è uno dei volumi che va a comporre la serie “Narratives of empire” in cui Gore Vidal ha l’ambizione di raccontare in sette libri la costituzione dell’impero americano partendo dalla guerra di indipendenza.
“L’età dell’oro” è ambientato nell’ambiente cinematografico americano. Le discussioni tra neutrali e interventisti prendono vita mentre in Germania si assiste alla continua ascesa del nazismo. Il mondo è in guerra, l’Europa è messa a ferro e fuoco. Riassumere in poche righe la trama di questo libro un’impresa quasi impossibile. Cinquecento pagine zeppe di personaggi, di trame che si intrecciano, di considerazioni sulla situazione politica americana e sullo spettro della guerra vista da un’ambiente privilegiato. Roosvelt che ottiene un terzo mandato (poi un quarto) per guidare l’America nel conflitto. Attori e attoruncoli che si gettano in conflitti personali che alla luce dei grandi fatti sembrano poca poca. Gente meschina, sognatori, distruttori di sogni e poi Gore Vidal personaggio del suo stesso libro.
La scrittura di Vidal a volte odora di giornalismo militante, altre volte dà l’impressione di nascondere la volontà di indottrinare il lettore. Ciò che però risata, secondo il mio parere, è la capacità meravigliosa che permette a Vidal di scandagliare la società. Parte da un presupposto molto importante. Gli individui che abitano un luogo nel tempo e nello spazio sono un’emanazione di quel luogo nel tempo nello spazio. Quindi non è possibile parlare del generale senza affrontare il particolare. Non è possibile raccontare una società evoluta senza parlare di coloro i quali contribuiscono alla costruzione di quella società. Ecco perché un romanzo ti tale portata e di tale complessità (soprattutto se calato all’interno del progetto “Narratives of empire”) porta alla luce dei tratti che sembrano universali e che sembrano essere perfettamente calati nel presente che stiamo vivendo e che purtroppo lasciano intravedere un futuro poco luminoso.
La traduzione di questo libro è stata affidata a Luca Scarlini. A mio modo di vedere un lavoro davvero bene fatto.
Nato nel cuore della vita politica statunitense, da bambino ha vissuto a lungo con il nonno Thomas Pryor Gore, senatore, che in seguito sarebbe stato un oppositore di Franklin Delano Roosevelt. Dopo aver militato nel Pacifico settentrionale come volontario durante la Seconda Guerra Mondiale, debuttò con Williwaw (1946), che raccontava esperienze belliche (come ben riassume presentandosi come personaggio in L’età dell’oro), cui fece seguito un’opera simile, In a yellow wood. La sua notorietà esplose però con The city and the pillar del 1948, intitolato successivamente nelle varie versioni italiane La città perversa, Jim e La statua di sale. La storia di Jim Willard, marchetta e maestro di tennis, ossessionato da un amore romantico e irraggiungibile, che per la prima volta presentava l’omosessualità negli USA in chiave realistica, senza sottolineature comiche, né tanto meno con il facile ricorso al melò, fece scalpore e determinò la fisionomia dell’autore nel mondo delle lettere e della politica americana, dove ha sempre avuto il ruolo di strenuo oppositore del conservatorismo. Dopo la pubblicazione, che suscitò reazioni violente, ma che gli procurò estimatori autorevoli (tra cui Christopher Isherwood e Thomas Mann, che parla a lungo del romanzo nei suoi Diari), passò quindi a lavorare in teatro, in televisione e nel cinema, dove firmò sceneggiature importanti, tra l’altro, notoriamente, per Ben Hur e in seguito per Improvvisamente l’estate scorsa di Joseph Mankiewicz e per Parigi brucia? di René Clement. Due i percorsi fondamentali nella sua opera narrativa: da un lato il contributo notevole e determinante a una nuova concezione del romanzo storico con il ciclo in sette libri della storia dell’impero americano, da Washington D.C. del 1967 fino a L’età dell’oro del 2001, che parla di Pearl Harbor e di Roosevelt, passando per Burr del 1974, che resta forse il titolo più notevole della serie, dedicato al personaggio più controverso della storia USA, Aaron Burr, di cui disegna uno straordinario ritratto. L’altro filone fondamentale è quello che lo presenta come attento osservatore del costume e dei way of lives americani ed europei e qui, sulla linea di The City and the Pillar, sono da citare senz’altro l’incantevole trans-commedia Myra Breckinridge del 1968, che ebbe grande successo di pubblico e critica, Due sorelle del 1970 e Duluth del 1983; infine va citato un dittico di opere dedicate a una riflessione su temi spirituali declinati in forme peculiari: Kalki (1978) e soprattutto In diretta dal Golgota (1992). Straordinario saggista e polemista, ha sempre svolto un ruolo di testimone scomodo della vita americana, come ricostruisce nell’autobiografia Palinsesto e come ben dimostrano anche i saggi raccolti ne Le menzogne dell’impero, tratti per lo più dalla silloge The Last Empire; da segnalare infine la sua carismatica presenza come performer, ribadita in infiniti dibattiti nel corso delle campagne elettorali sue o a sostegno di altri (di cui resta memorabile il celebre scontro televisivo del 1968 con Buckley) e non va dimenticata la sua sporadica carriera come attore cinematografico, di cui è notevole esempio il bel cameo come senatore liberal in Bob Roberts di Tim Robbins del 1992. Amante dell’Italia, che ha sempre considerato una seconda patria, ha vissuto tra Los Angeles e Ravello, sulla costiera amalfitana.
Lize Spit – Si scioglie
written by Gianluigi Bodi
Diciamoci la verità. Quando uno pensa ad una letteratura nazionale gli più venire in mente la letteratura francese, quella tedesca o quella russa. Magari ha cavalcato l’onda di Stig Larsson e si è appassionato alla lettura svedese, ma è difficile che uno pensi alla letteratura belga.
Male.
I buoni libri sono ovunque.
A me ad esempio è capitato tra le mani questo “Si scioglie” di Lize Spit. Una che in patria nutre di una grandissima considerazione e che da noi si è appena affacciata. Il libro pubblicato dalla casa editrice E/O e tradotto molto bene dal nederlandese da David Santoro racconta la storia di Eva. Incontriamo Eva quando lei ha già superato la ventina, ma il nucleo del romanzo ha luogo parecchi anni prima. In un paese delle fiandre chiamato Bovenmeer è successo qualcosa di molto brutto ad uno degli amici di Eva. Ecco quindi che Lize Spit ci fa ripercorre due linee temporali. La narrazione di quanto è avvenuto nel periodo dell’infanzia sembra avere ripercussioni immediata in ciò che leggiamo del presente, come se la Spit stesse giocando con l’effetto farfalla (quello cosa di cui avrete sentito parlare milioni di volte in cui se una farfalla sbatte le ali da una parte del mondo, dalla parte opposta succede un casino). Eva è quello che è anche e forse soprattutto per ciò che è successo e la struttura del romanzo, che lascia intravedere all’inizio e poi via via svelare con il dipanarsi della trama un mistero che coinvolte la città stessa di Bovenmeer, ci permette di addentrarci nelle profondità della solitudine di questa ragazza.
Possiamo indagare il rapporto che Eva ha con gli amici Pim e Laurens, la loro relazione con la tragedia e l’ingresso di un elemento femminile destabilizzante. Possiamo osservare la famiglia sgangherata di Eva e cercare di capire quanta parte della solitudine che li prova arrivi da loro.
Il libro regala momenti di angoscia esistenziali che non credo sia possibile respingere. I tono è spesso asfissiante, cupo, quasi come quei cieli carichi di neve che minacciano di rovesciarsi su di noi. La scrittura della Spit è davvero notevole, oltre ad essere molto piacevole, mantenere il timone a dritta per tutto il romanzo. Tracciando una strada stilistica molto consapevole. Il libro supera le 450 pagine e la bravura di Lize Spit sta anche nel fatto che queste pagine volano via veloci come se tutto fosse naturale e famigliare. Come se la profonda solitudine di Eva fosse la nostra stessa solitudine e soprattutto come se la letteratura fiamminga fosse molto più vicina a noi di quanto potessimo immaginare.
Lize Spit è nata nel 1988 ed è la straordinaria promessa della letteratura fiamminga. Si scioglie è stato pubblicato dai più prestigiosi editori europei. Sarà presto un film.
Le case editrici nascono ovunque. Fatico a star dietro alle nuove realtà che compaiono sul mercato. Senzaudio si proponeva come un osservatorio sull’editoria indipendente italiana, ma la realtà che per quanti libri uno legga, per quante case editrici conosca e per quanto il numero di case editrici che conosce gli sembri elevato, beh, quel numero è solo una piccola percentuale del totale.
Oggi ospitiamo “Nowhere Books”, una casa editrice di Foggia con un catalogo in divenire che oltre a dare spazio alla narrativa ha un occhio di riguardo anche per i testi teatrali.
“Il maggiore dei beni” di Valeria Caravella, classe ’82 rientra nel primo sottoinsieme. La storia che racconta è quella di Davide, un ragazzo quattordicenne che si definisce puro e che sa che morirà presto. Non perché sia affetto da qualche terribile malattia, ma perché, in quanto puro, non trova nulla di interessante che lo possa tenere ancorato a questo mondo.
Nota personale: ragazzi così ne esistono, ne ho conosciuto uno anche io.
Davide racconta la propria vita, tra scuola, famiglia, amicizie e effetti. Sembra che tutte queste cose gli scivolino via, ma in realtà qualcosa gli rimane addosso, appiccicato alle sue ali d’angelo. La domanda a cui il libro cerca di rispondere è: sarà abbastanza per appesantire Davide e farlo rimanere con i piedi piantati su questo mondo?
Il libro si costituisce sul rapporto tra il ragazzo e una presunta scrittrice che pare debba annotare la vita di questo adolescente “atipico”.
La narrazione procede per brevi capitoli, brevi analisi di situazioni quotidiane che un adolescente medio vivrebbe in maniera spensierata e che invece Davide vive in maniera quasi tragica. Cosa che porta, in alcuni punti, a voler entrare nel libro per dare uno scossone al ragazzo.
Lo stile del libro è semplice e la lettura procede spedita. La scelta di procedere per capitoli, diciamo per episodi, aiuta a rendere chiara la progressione e l’evoluzione del personaggio. Un personaggio di cui ognuno di noi deve avere un ricordo nascosto in sé e di cui Valeria Caravella ci regala un ritratto pieno di affetto.
Valeria Caravella è nata a Foggia nel 1982. Adesso vive a Vieste, sul Gargano. Gli ultimi inverni li ha trascorsi a leggere e a scrivere.
Mohsin Hamid – Exit West
written by Gianluigi Bodi
Mi sembra che ci siano libri che debbano essere tenuti sempre a portata di mano. Come un antidodo. Mi sembra si possa far uso di questi libri per tenerci aggrappati all’empatia, alla carità, alla tolleranza.
“Exit West” di Mohsin Hamid è uno di questi libri. Indubbiamente.
La storia è quella di Nadia e Saeed che si incontrano in un’imprecisata città che potremmmo tranquillamente identificare come Aleppo. Anche se la cosa non ha la minima importanta. Tra loro nasce una storia d’amore. Lei veste una tunica nera, anche se non prega. La usa per tenere a bada gli uomini, per dare un’immagine di sé il più possibile vicina a quello che ci sia aspetta da una donna. Saeed vive con i genitori, ha un lavoro nel campo della pubblicità. I due si incontrano e si attraggono, la storia d’amore si evolve in maniera naturale e il lieto fine è scontato.
I miliziani affondano gli artigli sulla città. Si inizia da un attentato. Il governo lo sventa e muoiono circa cento impiegati tenuti in ostaggio. La vita delle persone normali non ha più importanza. I cento erano sacrificabili.
La situazione in città peggiora di giorno in giorno. I negozi chiudono e vengono saccheggiati, il raggio di azione della gente comune diminuisce all’aumentare degli scontri. Nadia e Saeed si chiudono ognuno nella propria dimora. Tappano le finestre, se ne stanno al buio. Non voglione essere percepiti.
Ora la città è devastata dagli scontri. Non funzionano le reti cellulari, gli edifici sono martoriati dai bombardamenti. Nadia va a vivere a casa di Saeed dopo che questi ha subito un lutto.
Iniziano a circolare delle voci. Si dice in giro che alcune porte in città, porte nere, conducano direttamente in altri paesi. Nadia e Saeed ne attraversano una e poi un’altra ancora. Sono profughi tra i profughi. Sono persone indesiderate. Fanno gruppo con altra gente nella loro posizione, deleritti che sfuggono da paesi poveri in guerra. Ma anche in queste città queste persone vengono perseguitate, viene annientata la loro umanità. Una paura ancenstrale resterà sempre palpabile.
Mohsin Hamid scrive un romanzo che per quel che mi riguarda non ho problemi a definire un capolavoro. La trama è tristemente nota. L’unico elemento di rottura è l’inserimento delle porte nere che permettono di sconfiggere lo spazio. Un elemento che accentua ancora di più la tragicità del destino dei profughi. Tanto più facile diventa lo spostamento, tanto più solerte diventa la difesa di un presunto valore di purezza da parte degli abitanti di questi luogo. Ad un certo punto Moshid Hamid lo dice, paradossalmente l’accoglienza è migliore nei paesi poveri perché non hanno nulla da perdere, non hanno nulla che i nuovi arrivati possano rubare.
Il tono del romanzo non è mai eccessivo. Non cade nel patetico, non spinge sulla disperazione, non usa facili strategie. Saeed e Nadia a fatica mantengono la loro dignità, il loro status di esseri umani. Anche quando le privazioni sono intense.
Il ritmo del romanzo è lento, invita a riflettere sui legami tra le persone più che sui fatti che accadono.
La storia tra Saeed e Nadia è una storia che non è stata vissuta fino in fondo. E’ qualcosa di incompleto e come tale l’evoluzione che si prospetta non più essere positiva. Nadia e Saeed avevano bisogno l’una dell’altro per sopravvivere, per non perdere la propria umanità. Ma usciti dal tunnel non riconoscono più le persone che sono state.
Gli interrogativi sono tanti. Si può superare indenni una tragedia di questa portata? Si può venire a patti con se stessi dopo aver abbandonato la propria famiglia? Si può rimanere umani dopo quanto è successo? Si può sperare in un futuro migliore? E soprattutto, saremo in grado di accorgerci dei piccoli segnali che ci circondano e che, come spie, ci allertano che sta per succedere qualcosa di tremendo?
“Exit West” è uno di quei libri lì, da tenere a portata di mano, da leggere quando pensiamo che una piccola cosa idiota non può far danno, mentre il danno è già fatto.
Ottima traduzione di Norman Gobetti.
Mohsin Hamid è cresciuto a Lahore, ha frequentato la Princeton University e la Harvard Law School, lavorando poi per diversi anni come consulente aziendale a New York. Il suo primo romanzo, Nero Pakistan, tradotto in Italia da Piemme, ha vinto il Betty Trask Award, è stato finalista nel PEN/Hemingway Award ed è stato un Notable Book of the Year per il «New York Times». Suoi articoli e saggi sono apparsi su «Time», «The New York Times» e «The Guardian». Il fondamentalista riluttante, pubblicato da Einaudi nel 2007 e tradotto in piú di 25 lingue, è stato un bestseller internazionale, ha vinto l’Anisfield-Wolf Book Award e l’Asian American Literary Award, oltre a essere selezionato tra i finalisti del Man Booker Prize. Da questo libro è stato tratto un film per la regia di Mira Nair. Nel 2013, sempre per Einaudi, è uscito Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente, vincitore del Premio Terzani 2014, nel 2016 Le civiltà del disagio e nel 2017 Exit West.
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