Posto che i titoli dei romanzi non siano mai sintomo di casualità e che in genere esiste una semantica del titolo che concede una chiave di lettura privilegiata delle pagine che accompagnano la nostra esperienza del testo, in “La vita in tempo di pace” di Francesco Pecoraro il senso si lega, spesso attorcigliandosi, a i tre termini che lo compongono. Tre leit-worten, “vita”, “tempo” e “pace”, che costituiscono il motore semico del romanzo. Senso che tuttavia non si annuncia per semplice emersione testuale ma che in maniera più dinamica e complessa è sempre il prodotto di un movimento “peristaltico” del pensiero di Pecoraro, nell’alternanza della narrazione in prima e terza persona, un processo “metabolico” che si compie a partire da e grazie a la messa in relazione dei tre leit-worten.
Possiamo legittimamente presumere inoltre che, considerando le analogie anagrafiche e geografiche tra autore e protagonista del romanzo, Pecoraro insegua e insista su un modello formale autobiografico con tanto di dinamiche “trasferali” e proiettive incluse, e sotto questo profilo tutto il corredo emotivo dell’erlebnis dello scrittore fluisce attraverso il venirsi a costituire dell’opera. Un vissuto che reca i segni furibondi di un’epoca giunta al culmine dei sui giorni, un arco temporale che copre gli anni che vanno dal dopoguerra ai giorni nostri e che ha drammaticamente inflitto ferite insanabili nella carne e nell’anima della storia, che è la nostra storia.
A differenza di altri cantori del contemporaneo quali Siti o Genna, o per altri versi il collettivo Wu Ming, che misurano il proprio disagio come disagio dell’umano (o post-umano) nella sperimentazione linguistica, narrando con terrificante lucidità quel senso della fine dell’umano anche come fine del senso dell’umanità lungo un binario filo-ontogenetico, Pecoraro rimane al di qua della peripezia della forma evitando così anche spiacevoli capitomboli stilistici per restituire sobrietà geometrica alla scrittura, anticonformistica linearità.
La cesoia concettuale che distingue come gli antichi Romani un “tempo di pace” da un “tempo di guerra” cela tutte le ambiguità di un periodo storico prolungato nel quale è l’umano in quanto tale a farsi portatore sano del germe della guerra. Diversamente dalla civiltà dell’Urbe che proclamava questa disambiguazione tra fasi storiche distinte nel celebre motto “si vis pacem, para bellum”, conscia dunque del fatto che non è dato nessun periodo veramente pacifico, ma che ogni contesto storico deve necessariamente relazionarsi con la questione bellica, “la vita in tempo di pace” è uno scenario esistenziale che ri-presenta mimeticamente, ovvero sotto mentite spoglie, i medesimi motivi sottesi dalle fasi storiche dominate dalla guerra. E per questo la tragedia dell’(anti)eroe Ivo Brandani, ingegnere suo malgardo, è innanzitutto quella di un’inesorabile omologia che accomuna sé agli altri uomini in quanto appartenente allo stesso genere cromosomicamente marc(hi)ato dal gene del polemos, della conflittualità (il Capitale, lo Stato, il lavoro, la famiglia, le varie cellule sociali nelle quali si consuma tutta la varietà di macro e microfisiche del potere, della sopraffazione, dello hobbesiano bellum omnis contra omnium).
È la sconfitta, lo scacco, dell’alterità, del poter divenire altro da sé, del sapersi altro pur rimanendo all’interno dell’inevadibile confine del sé, dell’uomo. Finis hominis dunque anche come negazione ultima della storia intesa hegelianamente e storicisticamente come processo infinito. Darwinismo e, allo stesso tempo, antidarwinismo nel riconoscimento che l’assioma evolutivo procede seguendo una curva sull’asse orizzontale e non verticale e che dunque una qualsivoglia evoluzione biologica non coincide assiologicamente con un innalzamento di livello etico, che bios ed ethos non sono termini necessariamente relazionabili e “deducibili”. Anzi, una nuova etica dettata da nuovi fabbisogni costringe l’umano a modificare il suo ambiente, il suo habitat, plastificandolo (come l’intervento della società per cui presta lavoro Brandani sulla barriera corallina), piegandolo ad esigenze che sottostanno a parametri più merceologici che biologici.
Quella descritta da Pecoraro allora è una traiettoria “anontologica”, sulla scorta di Camus, deiettiva, che fa dell’uomo un essere tra gli esseri, un materiale umano organico e inorganico insieme che conduce un’esistenza per lo più parassitaria, ai danni di altri esseri, così come un nematelminta o un platelminta. In questo senso “La vita in tempo di pace” è una cronaca entomologica spietata poiché naturale, come quella dei film di Imamura, e i movimenti di storico andirivieni da parte di Ivo Brandani, dentro il tunnel della memoria e dei ricordi spesso contrassegnati dal “nomos” del padre e delle antitesi derivate, sono quelli incerti e dolenti dell’angelo benjaminiano dopo lo schianto, quelli di un io lacerato dallo scarto tra illusione e disincanto che si aggira spaesato tra le macerie dell’esistenza e della storia. Nessuna traiettoria escatologica possibile, piuttosto una stagnante condizione scatolologica. La rappresentazione di un mondo senza futuro, senza prospettive e tuttavia il rifugio nell’utopia/ucronia, nel sogno stoico (filosoficamente inteso) di palingenesi (dopo l’apocatastasi) racchiuso nel “non ancora” dell’epilogo, come desiderio e necessità di cancellazione e ri-cominciamento, che urta contro il “già sempre” dell’inesorabilità.
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