Caro Signor Tabucchi, vorrei che lei fosse ancora vivo perché ho sempre desiderato dirle una cosa, e ora che è morto(ormai già da un po’ in verità) mi trovo nell’impossibilità di dirle quella cosa che tanto le avrei voluto dire. Siccome credo che le parole non vadano mai sprecate e che comunque non sono abbastanza intelligente da sapere se dove sta lei, se proprio da qualche parte deve stare, c’è internet o no, io quella cosa gliela voglio scrivere qui così magari sorseggiando un buon caffè lei se la può leggere.
Il succo del discorso è che io lo so che per molti “Sostiene Pereira” è il suo libro migliore, che ci hanno fatto pure un film con Mastroianni e che ci ha pure vinto una milione di premi di ogni tipo e genere, ecco, vede, io queste cose le so, ma per me, “Sostiene Pereira” viene solo dopo “Notturno Indiano”. Ecco, l’ho detto, e questa cosa non la sostiene Pereira, la sostengo io, che non sono nessuno.
Le spiego anche perché, prima che il caffè le si freddi. “Notturno Indiano” per me è il racconto di un sogno, anzi, è un sogno bello e buono in cui chi sta sognando cerca una persona, ma non è che cerchi davvero una persona, no, secondo me, quello che fa quel sogno sta cercando se stesso dentro i propri ricordi.
Vede, signor Tabucchi, io credo che se uno volesse oggi descrivere un sogno a parole, non potrebbe fare a meno di leggersi il suo libro dalla testa ai piedi più volte e imparare quanto più possibile da lei. Io, ad esempio, pur non dovendo parlare di sogni, l’ho fatto, l’ho letto e l’ho riletto. E ogni volta il sogno era vivido come la prima volta. Potevo sentire l’umidità appiccicarsi alla mia pelle, sentivo le urla indistinte che sente il protagonista senza nome, camminavo con la sua camminata trasandata in cerca del mio amico Javier.
Signor Tabucchi, a me Pereira è piaciuto molto, e l’ho pure fatto comprare ad amici e parenti, ma quello che mi ha dato “Notturno Indiano” non me l’ha dato Pereira. Vede, adesso, con la stazza che ho, è pure probabile che suderei e arrancherei per le salite di Lisbona proprio come Pereira (a dire il vero, per esserci stato a Lisbona le posso dire che in effetti qualche sudata c’è scappata), ma la cosa più importante è che per una singola arrancata, ci sono centinaia di notti in cui io sogno un “Notturno Indiano”.
Non se l’abbia a male, signor Tabucchi, io queste cose gliele avrei volute dire prima e di persona, ma si immagina incontrarmi per strada e sentirsi dire da un perfetto sconosciuto che “Notturno indiano” è fatto della stessa materia con cui sono fatti i sogni?
Ora che ha finito il suo caffè immagino che debba tornare alle sue cose, per cui la lascio tranquillo. Dovunque ella sia, mi raccomando, non smetta di raccontare i sogni.
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