La distruzione delle Torri Gemelle rappresenta uno dei momenti più intensi e tristi della storia moderna. Il ricordo è tuttora vivido. Oltre a tutte le persone che sono morte in quel maledetto 11 settembre e agli eroi che hanno donato la vita per salvarne altre, non si può non considerare la violenza della distruzione di un simbolo, quelle due torri che furono i due grattacieli simbolo di un’epoca. Furono inaugurate il 4 aprile del 1973 e avevano 110 piani ciascuno, superando 415 metri di altezza. La loro costruzione è stata celebrata in tutto il mondo e in Francia i giornali locali segnalavano spesso che sarebbero state cento metri più alte della Torre Eiffel (come se il simbolo di Parigi fosse un’unità di misura).
Il mattino del 7 agosto 1974, Philippe Petit attraversò le torri gemelle del World Trade Center di New York camminando su un cavo d’acciaio spesso circa 3 centimetri e sospeso a oltre 400 metri dal suolo con solo un’asta per mantenersi in equilibrio, senza alcuna protezione o imbracatura di sicurezza. Un’impresa folle e allo stesso tempo leggendaria. Una sfida alla vita e alla morte. Un atto di coraggio estremo che diventa allo stesso tempo show per il pubblico e sfida alla modernità. Nel libro “The Walk” (Toccare le nuvole), edito da Ponte alle grazie, il funambolo Petit ci racconta tutte le fasi della preparazione psicofisica per poter compiere la coraggiosa e spericolata traversata. Era in attesa dal dentista quando, sfogliando una rivista, decise che quella sarebbe stata la sua sfida più grande, che quelle Torri sembravano messe lì solo per lui, alte e maestose, separate da 60 metri di spazio vuoto, riempito solo dalle nuvole. E anche se già nel ’71 aveva attraversato i campanili di Notre Dame a Parigi e nel ’73 le cime dei piloni nord dell’Harbour Bridge di Sydney serviva un’impresa memorabile per essere ricordato per sempre. 45 minuti di lucida follia (il tempo di fare otto volte avanti e indietro sopra il cavo), una camminata nel vuoto che fonde l’arte all’intrattenimento. Ovviamente alla fine della sua performance Petit sarà arrestato, ma forse è anche questo che renderà l’impresa ancor più leggendaria. La narrazione del funambolo è divertente e scorrevole. Nel libro si trovano i dettagli più interessanti della progettazione dell’intera traversata, organizzata come se fosse un colpo in banca, con complici e studiato nei minimi particolari perché fallire significava morire. E tutto ciò non viene fatto per nessuna ragione che non sia quella di intrattenere e divertirsi. Forse per questo motivo ha assunto il valore assoluto dell’impresa. E dalle imprese spesso vengono tratti dei film e anche questa volta l’industria cinematografica non si fa scappare questa storia : nel 2008 viene realizzato un documentario (che vinse l’Oscar l’anno successico) dal titolo “Man on Wire – Un uomo tra le Torri”, diretto da James Marsh e nel 2015 è uscito “The Walk” con alla regia di Robert Zemeckis e Joseph Gordon-Levitt nella parte di Philippe Petit. Tutti abbiamo provato almeno una volta a camminare in equilibrio sul bordo di un marciapiede, qualcuno però decide di non smettere mai di farlo.
La traduzione del libro è di Danilo Bramanti.
new york
Secondo la definizione del Vocabolario Treccani della lingua italiana per lavoro si intende qualsiasi esplicazione di energia (umana, animale, meccanica) volta a un fine determinato; secondo l’accezione più comunemente diffusa e particolarmente esasperata negli ultimi anni il lavoro è l’ applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza. Nell’accezione che io preferisco il lavoro incrocia otium e negotium, è ricerca intellettuale che si fa nobile del contatto con l’umano, con la natura, con il bisogno.
Qualunque sia la definizione corretta o privilegiata, il lavoro appare essere un riscatto, la liberazione dalla condizione che è propria dell’ animale, un motivo di festa conclamata almeno un giorno l’anno.
Charles C. Ebbets, fotografo statunitense nato nel 1905, il lavoro lo ha ritratto e cristallizzato in uno scatto, divenuto icona non solo della fotografia ma del sudore e della fatica che pure nobilita l’uomo e lo innalza, mai come in questo caso, al cielo.
Questa è la storia di una dissimulazione, è la storia di una vita straordinaria che non sapeva di esserlo, è la storia di come, alcune volte, consci di ogni bellezza eccetto la propria, si corra il rischio di finire in uno scatolone.
La protagonista di questo racconto è una musona americana con l’accento francese, troppo impegnata a non essere nessuno per diventare qualcuno, la protagonista di questo racconto è una cupa tata a tempo pieno, nel tempo libero una filantropa che ritrae la vita, ne segue le tracce, ne coglie il miracolo bello.
Il nome di questa donna è Vivian Maier, un nome in mezzo a tanti nomi fino al 2007 quando qualcuno, guidato dal caso, aprì la scatola in cui si era nascosta.
Per sapere di più: Findig Vivian Maier Trailer
Siamo circondati da immaginari e spendiamo gran parte del tempo che abbiamo ad ipotizzare come la nostra vita potrebbe o dovrebbe essere, ci ha fregato la filmografia americana che non ammette silenzi dialogici, c’hanno fregato i motel malfamati, maleodoranti di moquette e le sigarette spente sulla solfa dei giorni.
C’hanno plagiato i viaggi in autostop che da New York portano a Chicago e l’ansia di vivere una vita romanzata tra dolori stereotipati.
Nan Goldin, fotografa statunitense contemporanea, ha sposato il plagio prestando la propria vita e quella dei suoi cari come canovaccio su cui dipingere taglienti perdite e sublime bellezza;
Nan Goldin è intima, piena di lividi e di gioia di vivere.
Nan Goldin è come Kerouak senza filtri, puoi lasciarti fregare ma sappi che qui è tutto vero.
“Alcune persone diventano dei poliziotti perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore. Alcune diventano vandali perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore da vedere” (Banksy, Existencilism, 2002.)
Il mese da poco terminato, oltre alle zucche stregate e alle prime piogge di un incerto autunno, ha portato via con sé trentuno installazioni newyorkesi di Banksy , artista inglese dall’identità ignota famoso per una street art da sempre anti-capitalista, anti-istituzionale e pacifista.
Il V per vendetta dalla bomboletta magica è attivo fin dagli anni ’90, le sue apparizioni artistiche irriverenti, taglienti e al limite del grottesco mostrano il lato più oscuro della società moderna con un umorismo che potremmo definire pirandelliano.
Ultima sua prodezza, Better out than in, ha invaso i muri di New York per tutto il mese di Ottobre, dando vita ad una mostra itinerante che prevedeva un “contributo” quotidiano ubicato “a sorpresa” sulla buccia variopinta della grande mela.
Il sapore è sempre quello: dolceamaro, satirico e rivelatore con aggiunto un pizzico di amore per il simbolico e una profonda conoscenza dell’umano.
Come prevedibile l’effetto Banksy ha contagiato molti, alcuni stencils sono subito diventati icona, in particolare un cuore rattoppato che spicca il volo nel cemento e che tanto ricorda la balloon girl banksiana, realizzata nel 2005 sull’imponente muro di separazione israeliana; se però i palloncini cisgiordani sembravano portare in salvo la protagonista del murales conducendola verso nuovi mondi, qui il volo appare incerto, la meta è lontana e il cuore all’elio, senza nessuno da salvare, potrebbe sgonfiarsi da un momento all’altro.
La capacità del writer di Bristol di cogliere la realtà e tradurla in linguaggio figurativo è notevole ma anche pericolosa, il rischio che si corre accomuna l’ultima sua impresa a quella cisgiordana del 2005, ed è quello della riduzione di alcune opere d’arte a semplici icone svuotate del proprio profondo significato.
Il rischio che si corre è quello di far diventare Banksy il simbolo dell’arte anti-capitalista e non sapere cosa sia il capitalismo, d’aver sullo schermo del proprio smartphone the balloon girl e ignorare come il muro di Berlino in realtà non sia mai caduto.
Ma è tuttavia un rischio che va corso quando l’arte, come in questo caso, esce dai musei, diventa democratica, parla alle strade e delle strade si nutre in vitalità, e tanto meglio se anche una sola delle migliaia di persone fermatesi a guardare Ronald McDonald mentre trascina una bambina sopravvissuta ad un bombardamento, si chiederà “cosa avrà voluto dire?”