Mi sembra che ci siano libri che debbano essere tenuti sempre a portata di mano. Come un antidodo. Mi sembra si possa far uso di questi libri per tenerci aggrappati all’empatia, alla carità, alla tolleranza.
“Exit West” di Mohsin Hamid è uno di questi libri. Indubbiamente.
La storia è quella di Nadia e Saeed che si incontrano in un’imprecisata città che potremmmo tranquillamente identificare come Aleppo. Anche se la cosa non ha la minima importanta. Tra loro nasce una storia d’amore. Lei veste una tunica nera, anche se non prega. La usa per tenere a bada gli uomini, per dare un’immagine di sé il più possibile vicina a quello che ci sia aspetta da una donna. Saeed vive con i genitori, ha un lavoro nel campo della pubblicità. I due si incontrano e si attraggono, la storia d’amore si evolve in maniera naturale e il lieto fine è scontato.
I miliziani affondano gli artigli sulla città. Si inizia da un attentato. Il governo lo sventa e muoiono circa cento impiegati tenuti in ostaggio. La vita delle persone normali non ha più importanza. I cento erano sacrificabili.
La situazione in città peggiora di giorno in giorno. I negozi chiudono e vengono saccheggiati, il raggio di azione della gente comune diminuisce all’aumentare degli scontri. Nadia e Saeed si chiudono ognuno nella propria dimora. Tappano le finestre, se ne stanno al buio. Non voglione essere percepiti.
Ora la città è devastata dagli scontri. Non funzionano le reti cellulari, gli edifici sono martoriati dai bombardamenti. Nadia va a vivere a casa di Saeed dopo che questi ha subito un lutto.
Iniziano a circolare delle voci. Si dice in giro che alcune porte in città, porte nere, conducano direttamente in altri paesi. Nadia e Saeed ne attraversano una e poi un’altra ancora. Sono profughi tra i profughi. Sono persone indesiderate. Fanno gruppo con altra gente nella loro posizione, deleritti che sfuggono da paesi poveri in guerra. Ma anche in queste città queste persone vengono perseguitate, viene annientata la loro umanità. Una paura ancenstrale resterà sempre palpabile.
Mohsin Hamid scrive un romanzo che per quel che mi riguarda non ho problemi a definire un capolavoro. La trama è tristemente nota. L’unico elemento di rottura è l’inserimento delle porte nere che permettono di sconfiggere lo spazio. Un elemento che accentua ancora di più la tragicità del destino dei profughi. Tanto più facile diventa lo spostamento, tanto più solerte diventa la difesa di un presunto valore di purezza da parte degli abitanti di questi luogo. Ad un certo punto Moshid Hamid lo dice, paradossalmente l’accoglienza è migliore nei paesi poveri perché non hanno nulla da perdere, non hanno nulla che i nuovi arrivati possano rubare.
Il tono del romanzo non è mai eccessivo. Non cade nel patetico, non spinge sulla disperazione, non usa facili strategie. Saeed e Nadia a fatica mantengono la loro dignità, il loro status di esseri umani. Anche quando le privazioni sono intense.
Il ritmo del romanzo è lento, invita a riflettere sui legami tra le persone più che sui fatti che accadono.
La storia tra Saeed e Nadia è una storia che non è stata vissuta fino in fondo. E’ qualcosa di incompleto e come tale l’evoluzione che si prospetta non più essere positiva. Nadia e Saeed avevano bisogno l’una dell’altro per sopravvivere, per non perdere la propria umanità. Ma usciti dal tunnel non riconoscono più le persone che sono state.
Gli interrogativi sono tanti. Si può superare indenni una tragedia di questa portata? Si può venire a patti con se stessi dopo aver abbandonato la propria famiglia? Si può rimanere umani dopo quanto è successo? Si può sperare in un futuro migliore? E soprattutto, saremo in grado di accorgerci dei piccoli segnali che ci circondano e che, come spie, ci allertano che sta per succedere qualcosa di tremendo?
“Exit West” è uno di quei libri lì, da tenere a portata di mano, da leggere quando pensiamo che una piccola cosa idiota non può far danno, mentre il danno è già fatto.
Ottima traduzione di Norman Gobetti.
Mohsin Hamid è cresciuto a Lahore, ha frequentato la Princeton University e la Harvard Law School, lavorando poi per diversi anni come consulente aziendale a New York. Il suo primo romanzo, Nero Pakistan, tradotto in Italia da Piemme, ha vinto il Betty Trask Award, è stato finalista nel PEN/Hemingway Award ed è stato un Notable Book of the Year per il «New York Times». Suoi articoli e saggi sono apparsi su «Time», «The New York Times» e «The Guardian». Il fondamentalista riluttante, pubblicato da Einaudi nel 2007 e tradotto in piú di 25 lingue, è stato un bestseller internazionale, ha vinto l’Anisfield-Wolf Book Award e l’Asian American Literary Award, oltre a essere selezionato tra i finalisti del Man Booker Prize. Da questo libro è stato tratto un film per la regia di Mira Nair. Nel 2013, sempre per Einaudi, è uscito Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente, vincitore del Premio Terzani 2014, nel 2016 Le civiltà del disagio e nel 2017 Exit West.