Fra gli scrittori indipendenti che pubblicano con editori indipendenti, Francesco Permunian è uno di quelli che si sono guadagnati una credibilità più cospicua presso critici e lettori, quasi un outsider di successo, e fra i tanti che vezzosamente si autodefiniscono irregolari, lui spicca per esserlo davvero, uno che sta all’editoria come i Verdena al mondo discografico: due album in pochi mesi, in barba a tutte le leggi del marketing. A proposito della sua narrativa un critico ha scritto che “gli procura quasi una sensazione di gioia, la gioia del riconoscimento della letteratura, nella sua gratuità, nella sua indifferenza agli schemi e ai target precostituiti, nella sua beffarda estraneità alle formule correnti”, parole che ci suggeriscono lo scambio dell’aggettivo indipendente con estraneo, più attinente all’opera e a Permunian stesso, nel senso che in lui non c’è nessuna necessità di emancipazione da un sistema in quanto ne è costitutivamente già fuori. Non è superfluo chiedersi come sarebbe il mondo letterario se si basasse esclusivamente su un canone estraneo, se “gli irregolari” non fossero un capitolo a parte ma il canone stesso; di certo ci sarebbe da divertirsi, e da pagaiare, da un atollo all’altro, perché la fatica dell’approdo sarebbe solo nostra, nessun ponte sistematico, nessun carlosalinari dogmatico, nessuna crociera ideologica. Per ora ci si deve accontentare della vaga idea, non strutturata, comunque buona per riflettere su rimozioni e sensi unici del sistema, ci si deve accontentare della vaga idea di cosa sia la letteratura estranea leggendo Permunian e il suo doppio 2015, La polvere dell’infanzia per Nutrimenti e Ultima favola per Il Saggiatore, ma sia chiaro che andrebbe bene un suo libro qualsiasi, Dalla stiva di una nave blasfema o La casa del sollievo mentale, perché di un unico corpus si tratta, di un unico prolungato continuum la cui unica legge è quella dello sconfinamento, di genere, di stile, di morale (“io nutro ancora qualche barlume di fiducia soltanto in una forma di scrittura essenzialmente erratica e randagia”).
Il Polesine de La polvere dell’infanzia (a volte non ci lasciamo sorprendere abbastanza dalla pervasività che i luoghi hanno sulla nostra vita, forse perché l’unica colpa di certe categorie (come in questo caso quella di milieu) è quella di appartenere ad un altro secolo) è per Permunian una waste land che ha contribuito a infiammare la sua fantasia di piccolo moccioso introverso, rendendola irrimediabilmente morbosa e allucinata, una terra sconvolta da un’alluvione prima fisica e poi metafisica, qualcosa che ha travalicato i terrapieni della storia e che ha assunto la forma del definitivamente intimo. Nella prima parte si veleggia per flash, narrativi e fotografici, e incontriamo figure come Stino Pavanato, talentuoso cantautore troppo individualista per emergere nella discografia italiana degli anni settanta, e Giambattista Meneghini, mecenate, marito e agente di Maria Callas, struggentemente attaccato al ricordo della cantante, mentre nella seconda ci si immerge in un più intimistico poemetto in prosa che scardina la concezione del dolore.
Nitidamente sospesa tra memoria e artificio letterario, la sua prosa procede per cerchi concentrici, magicamente moltiplicatisi da un singolo lancio nello stagno, stagno su cui sta poggiata quella patina mnemonica che spesso non sappiamo o non vogliamo bucare. Ultima favola ci mostra invece l’altra grande scaturigine della letteratura di Permunian, le sue nevrastenie, i fantasmi di cui i suoi libri ribollono, una fermentazione per nulla salvifica, come si evince dall’esergo (“la letteratura è il prodotto di una mente profondamente disturbata, e non è affatto terapeutica”, Edna O’Brien); qui i centri concentrici si allargano nel puro specchio dell’immaginazione, visitazioni notturne che includono Permunian in quel letto inquieto e limaccioso che ha per argini novecenteschi le opere di Kafka e Gombrowicz, e così sboccia la sua solita incredibile ridda di personaggi fantasmatici, come i coniugi Manovella, collezionisti di luridi cimeli letterari, stinte marionette la cui impossibile e deprecabile umanità testa la nostra incredulità di malati di realismo, o come Manuel B., giornalista in disarmo vittima di bambole gonfiabili e non, figure che solo il nostro serial-scetticismo ci impedisce di riconoscere nelle persone che ogni giorno ci passano accanto, figure appena masticate e subito sputacchiate dal mefitico occidente. Il contagio del realismo intossica le nostre letture più di quanto immaginiamo e i libri di Permunian sono lì a ricordarci l’assunto nabokoviano che “i grandi romanzi sono grandi fiabe”, per questo non c’è niente di più sano che immergersi nel suo grottesco, una distorsione della realtà più che benefica in tempi sommersi, tempi alluvionati dall’alta definizione. Non sentirete scattare nessun processo identificativo tra voi e i suoi personaggi, quei meccanismi empatici che vi fanno tirare un sospiro di sollievo quando l’eroe sfugge al sibilo di un proiettile o quando il criminale viene consegnato alla legge. No. Resterete lì, fermi, a sentire delle cose senza nome che si accampano da qualche parte dentro di voi e che per un bel po’ vi terranno compagnia.