Come si manifesta la storia che vuoi scrivere?
Per lo più come un desiderio di forma. Mi capita cioè di leggere un testo che sotto il profilo formale mi affascina, mi stuzzica, mi intriga (e preciso che per “forma” intendo non solo il cosiddetto “stile” – la grana del testo – ma anche la struttura, il montaggio, lo stesso dispositivo drammatico: tutto ciò che viene esperito nel processo di lettura esattamente nel modo in cui è); entro dunque in contatto con la scrittura altrui in una fase che mi piace definire di innamoramento perché al pari di quando, innamorati, si ricerca continuamente la presenza dell’altro, allo stesso modo io rileggo, riprendo passaggi a me cari, me li rigiro in testa e in bocca, li adopero come trampolini di lancio o detonatori per produrre qualcosa di mio. Queste infatuazioni – sempre intense, non necessariamente stabili – funzionano da grimaldello per la mia immaginazione; sono calamite di immagini e di ricordi che cominciano a fluire e che io mi affretto a fissare scrivendo rigorosamente a penna. Non definirei questi tentativi di avvicinamento degli incipit e neppure vere e proprie promesse di narrazione; forse più dei frammenti, persino degli esercizi (spirituali? anche, se vediamo la scrittura anche come una forma di meditazione), alcuni dei quali cominciano ad attrarsi e a chiamarsi l’un l’altro. Non appena mi sembra di intravvedere una logica formale capace di tenerli insieme mi dico che lì, forse, potrebbe esserci una storia. Il che non è sempre detto, anzi il più delle volte si tratta di abbagli e/o di false partenze (c’è questo ramingare dell’immaginazione che mi ricorda una frase del poeta Ernesto Ragazzoni il quale si definiva “una fede in cerca di un Dio”; ecco, si parva licet io mi sento una fede nella scrittura in cerca di una forma capace di esprimerla). Dove però c’è più consistenza e la promessa appare evidente tanto quanto a uno scultore potrebbe apparire evidente e necessaria l’immagine di una statua rinchiusa in un bel pezzo di marmo (oppure pensa a Mastro Geppetto, che vede Pinocchio già contenuto nel ciocco di legno), allora comincio a scalpellare, a inoltrarmi…
E dopo che il primo seme è stato piantato che fai? Sinossi, schemi, scalette, ne parli con qualcuno? Come funziona il tuo processo di scrittura?
La stessa intensità monomaniacale che caratterizza l’infatuazione fin qui descritta riguarda anche (o meglio: ha riguardato finora, ma per il futuro: who knows?) la fase successiva. Sinossi, schemi, scalette ecc. vanno bene per chi ha in animo viaggi sulla lunga distanza (mesi, se non facilmente anni), ma per me che mi gioco tutto in due, tre mesi al massimo non hanno granché senso. E mi gioco tutto in quel lasso di tempo omeopatico perché per me la scrittura narrativa – e al contrario di quella professionale, o del testo che sto scrivendo in questo momento – è una pratica totalizzante, che oblitera possibilmente qualsiasi altra attività o la declassa sullo sfondo o in una situazione di spietato stand-by. Ora, io non posso certo rintanarmi in una baita nel Vermont con un taccuino, una penna e una cassa di whisky, ma organizzandomi con lavoro e vita privata cerco di ricavarmi delle giornate intere di scrittura: anche otto, dieci ore di fila e rigorosamente a mano (su un Moleskine a righe formato XL 19 x 25 centimetri, copertina morbida, colori assortiti; il pc viene coinvolto in una fase successiva), sottraendo ore al sonno e obliterando del tutto il tempo libero. Ovvio che una simile routine non possa durare a lungo, e infatti dopo essermi spremuta ben bene succede che da un giorno all’altro non ne posso più e mi spengo. A quel punto ho genericamente in odio tutto ciò che ho prodotto: sentimento il più delle volte giustificato perché si tratta di stesure assai grezze, piratesche. Seguono alcuni giorni di calo dell’adrenalina e dell’umore, uno stato disforico capace di sprofondare nella franca depressione se ho avuto la malaugurata idea di spedire tutto alla mia agente. Qui si aprono due scenari: o a distanza di mesi (talvolta di anni) in quel che ho scritto c’è veramente qualcosa – e allora torno a lavorarci sopra con meno irruenza e più criterio; oppure non c’è niente, e a quel punto sarà tempo buttato, o investito in sano esercizio a perdere. I romanzi che ho scritto dal 2016 a oggi (tre pubblicati più un quarto ancora inedito) hanno richiesto ognuno diversi anni di lavoro, ma sempre per sessioni molto concentrate (tre, quattro mesi al massimo) seguite da lunghi periodi di stasi e di parziale dimenticanza del testo: che è poi l’unica condizione – somministrarsi il silenzio e l’oblio – per poter intervenire su ciò che si è scritto in maniera radicale e stravolgente. Resta il fatto che la scrittura non la si possiede completamente mai, o almeno non la possiedo io. Sebastiano Vassalli la definiva quella “serva divenuta padrona” che si inserisce fra la storia che lo scrittore vorrebbe raccontare e il romanzo che poi riesce o non riesce a scrivere, ed è una definizione nella quale mi ritrovo pienamente. In somma, l’aver portato a termine un romanzo non ti dà alcuna garanzia sul fatto che riuscirai a scrivere il successivo, e men che meno sul fatto che riuscirai a farlo bene.
Come legge uno scrittore?
Affrontando i testi altrui come insiemi di soluzioni a problemi – progettuali, compositivi, espressivi – che l’autore può essersi posto consapevolmente come anche no, per azione di quegli automatismi sedimentati che passano sotto il nome di “tecnica” o di “esperienza” (nei casi meno felici di “maniera”). Le opere di chi ha scritto prima di noi e di chi scrive assieme a noi (sono una convinta sostenitrice del valore formativo dei contemporanei) sono in fondo l’unico manuale di scrittura che serve: purché le si sappia leggere nel modo detto sopra, ossia non come normalmente legge un lettore puro – foss’anche un lettore cosiddetto “forte” –, e neppure come legge un critico o uno storico della letteratura. Lo scrittore ha, rispetto al critico e allo storico, una libertà: quella di strumentalizzare anche sfacciatamente le opere altrui. La libertà di fraintendere, di prendere granchi e fischi per fiaschi, la vertiginosa libertà dell’interpretazione financo marchiana (che è cosa buona tenere per sé): trasformare la tradizione o la coevità in un utensile non di rado anche improprio per costruire il proprio manufatto, perché in arte il fine giustifica sempre il mezzo e un ottimo risultato dignifica a posteriori anche la progettazione più scalcagnata. Tutto può essere sbagliato, in definitiva, purché sia credibile.
Quale argomento insegneresti per primo in un corso di scrittura?
Per i motivi esposti sopra: la storia e la critica della letteratura. E lo so: non è la risposta che ti aspetteresti e che in genere si aspettano gli allievi. Chi sceglie di frequentare un corso di scrittura cerca situazioni dove mettere fin da subito le mani in pasta e dove gli si dica con esattezza come-si-fa-cosa – insegnami la tecnica, i “trucchi del mestiere”. Ma questa visione che definirei un po’ machiavellica dell’allievo (fuggitore del pericolo – dunque prono all’ordine della regola e regoletta – e cupido di guadagno – i risultati concreti e spicci) è a mio giudizio sminuente e a gittata corta. Il fatto è che le famigerate “regole” che costituiscono l’ossatura dell’usuale didattica della scrittura creativa discendono o dalla narratologia – dunque dallo Strutturalismo – o da esternazioni degli autori stessi. Si tratta in entrambi i casi di regole-non regole (nel primo abbiamo dei principi analitico-descrittivi; nel secondo una buona pratica a uso personale) senza dubbio utili ma prive di alcun valore apodittico e men che meno scalpellate su roccia; e però se tu non lo sai – ossia se non possiedi una almeno minima infarinatura degli strumenti che ti permettono di collocarle storicamente e dinamicamente –, se le prendi come dictat incontestabili, riduci di molto i tuoi margini di manovra. In sintesi: se sai da dove nascono le “regole” puoi capire perché esistono, cosa possono fare per te, come applicarle con profitto oppure come fartene un baffo e respingerle.
Valentina Durante è nata nel 1975 e vive a Montebelluna (TV). È copywriter freelance. Nel 2019 ha pubblicato La proibizione, mentre nel 2020 è uscito Enne. Del 2022 è invece Immaginare le storie – Atlante visuale per scrittrici e scrittori, scritto a quattro mani con Giulio Mozzi. Dal 2019 collabora come docente con la Bottega di narrazione.
Il suo ultimo romanzo è “L’abbandono” edito da La Nave di Teseo.