Come si manifesta la storia che vuoi scrivere?
All’inizio di Avventura dell’uomo Piero Scanziani dice: “noi siamo vivi da quando i nostri genitori si
sono abbracciati”.
Quell’abbraccio è l’incontro di due universi di idee – più e meno mutevoli – fra le quali anche quelle
sul diventare genitori, quindi sui potenziali figli.
Queste idee si sono costruite con il lavorio di continuo incontro fra esperienza e racconto di sé
che, per farla semplice, chiamiamo vivere. Vista in questi termini – che poi ricalcano le fasi di
assimilazione e accomodamento teorizzate da Piaget – vivere è un continuo rincorrersi di storie
perturbate dalle esperienze e nuove esperienze permesse dalle nuove storie.
Quando scrivo, un racconto o un romanzo si manifestano in quel modo.
Prima c’è una fase di cui non mi accorgo se non per alcuni eventi che, a posteriori, riconosco come
prodromici, ma lì per lì sembrano episodi.
Che so, un libro che fino a pochi mesi prima avrei snobbato, mi emoziona. Continua a non
piacermi, magari, ma mi emoziona.
Può capitare. – mi dico – È l’eccezione che conferma blablabla.
Via, via gli episodi aumentano. Contemporaneamente iniziano a manifestarsi noia e insofferenza
verso il vecchio, che hanno come contraltare un desiderio entusiasta per il nuovo.
Anticipando la metafora della domanda successiva, il terreno cambia di acidità, quindi è possibile
che sia una buona coltura per tipologie di semi fino a quel momento mai seminate; semi che
arrivano lì come succede nei campi abbandonati e talvolta anche in quelli coltivati: grazie al caso.
Mi è capitato di storie che sono iniziate per dare spazio a pensieri invadenti (per esempio Nikita,
un racconto pubblicato anni fa sulla rivista Risme, in cui un uomo ha un legame stretto e
maltrattante con il proprio cane. Avevo da poco il mio cane e, nella nostra relazione fortemente
connotata dalla dipendenza, avevo capito di volerle molto bene e di poterle fare molto male,
quindi volevo vivere dentro al racconto quello che non avrei voluto vivere nell’esperienza), altre si
sono rivelate focalizzazioni attorno a domande per me antiche (per esempio, Fino all’inizio: come
si fa a stare insieme? A fidarsi?) e via dicendo.
E dopo che il primo seme è stato piantato che fai? Sinossi, schemi, scalette, ne parli con
qualcuno? Come funziona il tuo processo di scrittura?
Proseguo da prima. Forse vengono piantati più semi di quanti ci accorgiamo, solo che l’interazione
seme-terreno di quel momento permette la crescita di una pianta invece che un’altra. È una cosa
che chiedo sempre alle presentazioni: perché questo libro, proprio in questo momento della tua
vita?
Una volta che scelgo (e mi lascio scegliere da) uno dei germogli, procedo con azioni di cura diretta
e indiretta.
Quella indiretta è, per esempio, leggere scritture che vanno in direzioni che sento riverberare. Ho
bisogno di lasciarmi perturbare. Ho parlato di letture, ma avrei potuto dire mostre, canzoni,
notizie, podcast; avrei potuto dire passeggiate e viaggi; avrei potuto dire anche dialoghi,
telefonate origliate sui mezzi di trasporto e ricordi, perché è come se, a quel punto, iniziassi
inconsapevolmente a farmi toccare da cose che pochi mesi prima non avrei notato.
Questa indiretta è una cura a volte dolorosa, perché mi richiede fede più che fiducia verso il mio
processo creativo. Di solito non si accompagna a periodi di effettiva scrittura. E questo è
frustrante.
Provo a ridurre questa frustrazione scrivendo altro oltre al progetto principale che sto seguendo.
Mi sforzo a riconoscere che mi sto allenando, ma comunque non sono periodi particolarmente
felici (per quanto riguarda la produzione creativa). Sono, diciamo così, periodi di trattativa in cui
vecchio e nuovo si confrontano, anche aspramente, per generare un possibile non ideale ma
agibile.
A un certo punto questo compromesso riesce, le radici sono sufficientemente solide per passare
alla cura diretta, quindi alla scrittura.
Tendo a scrivere presto, appena sento che voce e personaggi possono reggere la costruzione in
itinere della storia.
La prima stesura è essenziale e acerba, quindi le revisioni servono affinché la pianta maturi, si
sporchi, si imbastardisca e abbia un’idea onesta di sé: chiarisco la trama (se c’è) e il tema, definisco
le voci, cesello il ritmo (per questo, leggo ad alta voce e il cane di cui sopra mi fa da pubblico),
scelgo minuziosamente i termini; la storia si arricchisce e perde dei pezzi per diventare più
strutturata; l’architettura talvolta rimane inalterata, spesso cambia.
Questo lavoro, che ripeto per varie volte, procede costante fino a quando sento che, in quel
momento, è esaurito.
Lascio passare alcuni mesi, mesi di cura indiretta, poi torno al testo e il processo riparte.
Durante queste fasi entra in gioco il confronto con le mie lettrici e i miei lettori – persone che negli
anni mi hanno dimostrato una severa benevolenza nel darmi pareri su quello che scrivo. Questi
pareri arricchiscono i nutrienti del terreno, per cui la crescita si rinvigorisce.
Il lavoro finisce quando mi accorgo di girare a vuoto. Me ne rendo conto quando, confrontando tre
versioni, vedo che magari nella prima c’è una virgola, che nella seconda ho tolto e nella terza
rimesso.
A quel punto, il romanzo o il racconto sono pronti a incontrare i giudizi degli editor, siano essi di
riviste o di editori (o di agenzie). Anche questa fase sarebbe interessante da esplorare, ma
richiederebbe di dilungarmi troppo perché rappresenta un ulteriore livello di complessità: si tratta
di mescolare due terreni, capire reciprocamente i livelli di sali minerali e definire i rispettivi vincoli
e le rispettive possibilità. Questo vale quando si procede verso la pubblicazione, come quando
sono da comprendere le ragioni di un rifiuto.
Come legge uno scrittore?
Lo accennavo prima: per me, leggere è una fonte di perturbazioni. Sia da lettore che da scrittore.
Ho finito giusto poche settimane fa il libro Cosa vediamo quando leggiamo di Peter Mendelsund.
Mi ha colpito come sia riuscito a esporre in modo chiaro un’idea che non avevo mai focalizzato:
leggere è un processo relazionale che racconta del libro come di chi lo legge. Questa mi sembra
essere la specificità che la lettura condivide con parte dell’arte figurativa (uso questo aggettivo nel
senso più ampio possibile): entrambe lasciano l’osservatore libero, quindi lo trascinano in un
rapporto di responsabilità dell’esperienza che vive.
Provo a non divagare e torno alla domanda: la lettura da scrittore.
Per rispondere uso una forzatura. Fingiamo che i ruoli di lettore-persona e lettore-scrittore non
siano porosi, ma divisi da una porta tagliafuoco: come leggo da scrittore?
Dipende dalla fase in cui sono, se di cura indiretta o diretta.
Non uso matite rosse, non mi interessa stanare o cogliere in fallo. Il mio primo approccio è:
lasciarmi colpire. Dalla costruzione dei personaggi, dalle loro voci, poi dallo stile, dal ritmo e via,
via tutto il resto. Quando succede, ne sono felice e, se sono nella fase di cura indiretta, mi
accontento di raccogliere per come viene.
Se sono nella cura diretta, può essere che abbia scelto quel libro per una ragione specifica. Sarò
attento a notare gli aspetti dei quali mi interessa capire, immaginandola a ritroso, la
progettazione.
Non dicendo niente di nuovo, leggere da scrittore è come entrare in un negozio senza commess* e
senza controlli, anzi, con un cartello bello grande: ruba pure, mi fa piacere.
Poi c’è un altro aspetto che, nella lettura da scrittore, ha un peso: mi piacerebbe pubblicare con
questa casa editrice?
Lì c’è tutta un’area di valutazioni che riguarda: il progetto grafico; il font e l’impaginazione, quindi
la leggibilità; la piacevolezza della carta; il numero di refusi (che per me non ha un valore di per sé,
ma lo prendo come indice della cura con cui è lavorato un testo), immaginare le possibili aree di
incontro fra quello che scrivo e quello che questi editori pubblicano.
Questi ragionamenti occupavano più spazio consapevole anni fa. Oggi li sento meno presenti,
forse stanno sotto traccia, ma mentirei se li omettessi.
Se dovessi insegnare in una scuola di scrittura quale argomento affronteresti per primo?
La costruzione psicologica dei personaggi. Che siano complessi, ambivalenti, comprendenti uno
spettro umano fuori dagli stereotipi, o, se stanno dentro degli stereotipi, che li rendano fatti di
carne irrorata di sangue.
Per me questo è il discrimine fra un testo su cui si può lavorare e uno da rifare. Un personaggio
stereotipato userà espressioni stereotipate, farà cose stereotipate, la lingua sarà a sua volta
sciatta, perché un personaggio che non può esistere dovrà anche parlare una lingua che dimostra
la sua non esistibilità.
Ho estremizzato (ci sono scrittori e scrittrici che non sono fenomenali nella costruzione psicologica
e salvano i loro testi in altri modi, magari con la rilevanza sociale del racconto, oppure la trama
avvincente), ma mi rendo conto che le storie abitate da personaggi piatti sono le uniche che ho la
tentazione di non portare a termine, anche se sono scritte divinamente.
Anzi: tanto più quando sono scritte divinamente. Perché in quel caso intuisco il tentativo di
nascondersi dietro al velo del prosare.
E non parlo del nascondersi per mostrarsi, che accomuna tutt* quell* che scrivono. Parlo del
nascondersi per nascondersi e ammaliare.
Che sia un bene o un male, c’è un unico personaggio che non può mancare a una storia: la persona
che la scrive. Se quella persona non si mette in gioco in modo onesto, il suo prodotto sarà
conseguente a quella disonestà di fondo.
Quindi, riportando il focus nella domanda, inizierei con un bel lavoro di esplorazione dei
personaggi, partendo dall’autore/autrice; che sia un lavoro senza sconti, un lavoro attraverso il
quale, quando quest* autore/autrice si metterà a scrivere la storia che desidera scrivere – anche
fosse quella più lontana che esista dalla propria biografia – possa riconoscere di saper maneggiare
la complessità umana degli altri personaggi oltre a sé, semplicemente perché sa di contenerla.
Alessandro Busi è psicologo e psicoterapeuta, vive a Padova. Il suo romanzo Fino all’inizio è uscito nel 2021 per la casa editrice Pièdimosca, per la quale ha partecipato anche all’antologia Multiperso (2022). Nel 2024, il suo Rubacuori è stato inserito nell’antologia L’ora senza ombre, edita da Pidgin. Suoi racconti sono usciti negli anni su varie riviste letterarie.