Oceano Padano – Mirko Volpi

by senzaudio

Voi siete convinti di conoscerlo, il paese in cui abitate e di cui seguite le vicende attraverso l’approfondimento televisivo di stringenti tematiche quali “L’incredibile invasione dei sinti in Italia”, poi vi ritrovate in mano un libro e vi accorgete che quel paese non lo conoscete affatto, o che lo conoscete come Gabriel Conroy conosceva la moglie Gretta nei Morti di Joyce.
A me capita di scendere in Pianura Padana. Son circa venti chilometri. Ci troviamo nel garage di un amico, mettiamo uno zampirone sugli amplificatori e facciamo un po’ di rumore con le chitarre. Mi sembrava di conoscerli, quei posti dove la linea dell’orizzonte non subisce affronti orografici e le narici sperimentano titillature desuete, quei posti dove le distese verdi e i cannoni spara-acqua sembrano più che sufficienti a incasellarne il territorio. In realtà la mente umana sta sempre in superficie alle cose (coi luoghi, ad esempio, non riesce ad andare oltre la cartolina) e leggendo Oceano Padano (Contromano, Laterza) di Mirko Volpi si ha piena coscienza delle addizioni a una cifra cui abituiamo il cervello: non appena immergiamo i piedi nelle sue pagine (pagine inaspettatamente acquatiche) le cose ci appaiono subito sotto un’altra luce, probabilmente con lo stesso effetto che poteva sortire la lettura del De origine et situ Germanorum di Tacito qualche millennio fa.
La prima parte di Oceano Padano è un trattato di geografia antropologica ben lontano dalle affabulazioni di cui siamo frenetici consumatori e ha per tema il genius loci; la seconda, dedicata a Nosadello, paese orfano di eventi storici e eventi del giorno, rientra invece in una letteratura per frammenti, a tratti aneddotica, cui siamo più avvezzi, anche se il piglio rimane più che peculiare. Il trattato è la nitida descrizione della pianura più fertile d’Italia e delle genti che la abitano partendo proprio del sovvertimento delle nostre pacifiche convinzioni: i padani abitano atolli, isole e arcipelaghi (“nessun popolo della penisola può dirsi più acquatico di noi che abitiamo le isole dell’Oceano Padano”) e capitolo dopo capitolo il segreto acquatico ci viene svelato in tutta la portata di falde, marcite, rogge, fontanili, canali, risorgive; scopriamo così che l’abitante della PP ha più dimestichezza con l’acqua di un isolano doc, acqua che a differenza di quella dell’isolano non è salata e quindi utile alla terra. Proprio l’acqua permette a Volpi di introdurci nell’umidissimo humus dell’uomo padano e nella sua concezione del mondo in termini di nisi utile est quod facimus, stulta est gloria: siccome gli sfugge tutto ciò che non gli serve, dell’acqua salata non sa che farsene, così come non sa che farsene di qualsiasi altra esperienza extra-padana; quegli stessi canali irrigui, rogge e fossi compresi nel triangolo Adda-Oglio-Po, in altre parole gli artefici dell’oceano, impongono ai luoghi una rigorosa geometria che col passare dei secoli ha finito per riflettersi nell’interiorità dei suoi abitanti:

Il dono della terra, questo talento naturale che ci è stato dato in sorte, lo abbiamo irreggimentato, incanalato con fatica e ingegno in un mirabile sistema di irrigazione che ha nella marcita il suo culmine d’intelligenza operosa. Incommensurabili reticoli di rogge e canali irrigui, lasciati riempire e svuotati alla bisogna, scolmati da semplici chiuse, si dipanano nel panorama, segmentando il nostro stesso modo di pensare.

Una delle cose più belle del libro è il noi con cui Volpi racconta l’oceano padano (nessun distacco ironico alla Wallace che pure era attratto dalla geometria del suo Midwest). Volpi è filologo, lavora in città, lontano dalla sua isola, ma rimane uno che “naviga a vista di roggia”, non fa il contadino ma è solcato dall’umile magistero agricolo (“la medietà è un marchio a fuoco sulle nostre esistenze misurate e trattenute”), aborre le teatralizzazioni e la retorica, e non nasconde un certo rimpianto per l’atavica rudezza di una civiltà che aveva il dono della pazienza e della contemplazione; il libro che Volpi ha dissodato, seminato e irrigato è profondamente ideologico, incentrato come è sull’incredibile (a tratti irreale) resistenza di un ceppo italico finora sfuggito al genocidio di pasoliniana memoria: l’evo moderno “galoppa in troppo rapida marcia” rincorrendo gli “innaturali limiti da varcare”, ma l’uomo padano ben sa che sono tutti inganni e quindi si tiene “al riparo da una modernità che non ci può salvare”. Sì, il punto è questo: continuando ad alzare l’asticella, il dna dell’uomo ha finito per modificarsi (nel segno di una ipersensibilizzazione, etica ed estetica) e con esso tutto ciò che gli sta intorno; l’uomo padano invece sa che ogni cosa ha un suo posto, e che questo posto va mantenuto, perché in quel frammento di mondo che è l’oceano padano “le porte del caos sono rimaste chiuse”. Col suo stile nitido e armonico (che tracci solchi d’aratro o di stampante, l’uomo padano persegue sempre l’equilibrio, unico modo “per riconciliarsi con le inesprimibili angosce dell’essere umano”) Volpi dipana la sua idea di involuzione occidentale: intriso al midollo di “esibizionismo sentimentale” e soprattutto “intestinale”, il nostro è un mondo abituato a buttar fuori tutto, finito a ragionare con la pancia. L’uomo padano invece trattiene, non ha cedimenti per ciò che non è essenziale e il suo streben è la riduzione della sfera emotiva fino a renderla “le nostre vere pudenda”; i contadini dell’oceano padano, uomini irriducibili, sono “immigrati del passato che arrischiano un’imperfetta integrazione col presente”. Lontano da ogni tono epico, Volpi disegna un mondo verghiano in cui l’attaccamento alla terra si esaurisce nella sua dimensione fisica, che a voler guardar bene, forse non è poi così poco.
Sono persuaso che la decadenza dell’umanesimo occidentale abbia coinciso con l’estromissione della filologia dai piani alti della cultura; è probabile che si tratti davvero di “critica degli scartafacci”, come la definì quel tale dell’intuizione lirica, ma è innegabile che quello filologico fosse l’unico approccio alla cultura che le garantisse conservazione e quindi sopravvivenza. Naturalmente al tempo del salvataggio automatico incentrare la cultura sulla ricostruzione dei testi sarebbe inutile quanto impossibile; la stessa interpretazione di un’opera letteraria (e chi le chiama più così?) si attiene oramai a parametri puramente degustativi, Volpi direbbe intestinali, quanto di più lontano dalla critica filologica, eppure non si può non rimpiangere un distacco di quel genere. Se la caduta è iniziata con l’abbandono della filologia da parte di Nietzsche, più che emblematico risulta che il suo corrispettivo dei nostri tempi, il massimo “addio alla filologia” che la nostra epoca abbia potuto permettersi, sia quello di Alfonso Signorini. Eppure io continuo a credere che un giorno i filologi italiani si uniranno per fare la rivoluzione con Varianti e altra linguistica di Contini in mano. Gli obiettivi sensibili saranno i quotidiani sportivi e i libri dei cantanti, la prosa sarà linda e geometrica, e l’uso di termini come canea e adesa non verrà preso come affettazione o snobismo intellettuale.

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