C’è bisogno di un pensiero che mandi in frantumi l’universo. Questo pensava Emil Cioran e certo aveva ragione da vendere.
Alle parole del mio pugnalatore preferito ho pensato leggendo Apologia di un perdente di Marco Vetrugno (Elliot pagine 52, 7 uro)
Marco è uno scrittore dinamitardo, un poeta che ama la deflagrazione.
Dopo Mùtilo torna a scrivere per il teatro e ci regala questo straordinario dramma in sette atti in cui l’inferno della poesia scrive pagine intense di estrema volontà di potenza.
Il cuore di questo testo è Ezra che per sfuggire ai suoi demoni si rifugia in un museo, Nelle sale incontrerà le opere di pittori che si sono cimentati con la vocazione sinistra della creatività.
Bacon, Bosch, Van Gogh, Soutine, Hopper e Schiele e Escher. Sono questi gli artisti che accompagnano Ezra nel suo delirio verso la follia.
«Ezra è un sognatore e i sognatori hanno vite brevi e mille morti da raccontare, i sognatori hanno vite eterne e mille morti da raccontare, da annientare».
Davanti al Bue squartato di Soutine, il protagonista sente l’odore del sangue e il suono delle gocce che si schiantano al suolo.
Mattanza e mattatoio sono i paradigmi di una crudeltà umana. A nutrire i sensi di tutto questo macello è un’inevitabile decomposizione.
Ezra attraversa il museo che è diventato il palcoscenico infermo della sua esistenza.
Davanti al Trittico del Giudizio universale di Bosch scopre l’inferno come rivelazione e la sua carne maciullata subisce ancora una volta le conseguenze degli eventi.
L’ inquietante occhio di Escher lo annienta in maniera definitiva e vede solo lampi, bagliori di follia, deformazioni, amputazioni.
Apologia di un perdente è il libro coraggioso di uno scrittore urticante che nelle sue opere ha scelto la via scomoda del pensiero dinamitardo.
Anche questa volta Marco Vetrugno affida il suo dire alle cose che ama di più: il teatro e la poesia. E scrive questo nuovo testo teatrale con la lingua esplosiva della poesia che non si nasconde dietro nessuna metafora per raccontare del suo e del nostro mondo il disincanto che non concede nessuna via di fuga.
Quello di Marco Vetrugno è un teatro provocatorio, ma a essere provocatoria è la sua scrittura estrema e mai accomodante, fatta di squartamenti e di incisioni, di ferite e di tagli che sanno raccontare tutte le perdite di sangue che subiamo nella nostra vita.
«In fondo non è altro / che un processo di deperimento / un’esistenza inarrestabile / per sfuggire alla noia / ma non ci si riesce / una noia / interrotta soltanto / dalla paura della morte / essere definitivamente soli…».
Questi versi di Thomas Bernhard (autore molto caro a Marco Vetrugno), tratti da Ritter, Dene, Voss, sono il cuore dilaniato di Apologia di un perdente.
Perché Ezra è soprattutto la storia di una caduta raccontata da deliri infiniti e poco ragionevoli squartamenti.