Leggenda privata – Michele Mari

by senzaudio
Michele Mari, Leggenda privata,

 

Che cos’è un ircocervo? Michele Mari risponderebbe “un tragelafo” e poi ci attaccherebbe una saporosa storiella su Benedetto Croce, tanto per ricordarci che lui (Mari, non Croce) è il mari monstrum della nostra letteratura, uno che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, uno che non vanta innumerevoli tentativi di imitazione solo perché vorrei vedervi a imitare un ircocervo.

Però, se fino ad oggi avevamo capito che la sua letteratura era un “consegnarsi inermi agli artigli dei demoni” (coi millanta amplessi fra nevrosi e scrittura confessati anche nella forma saggistica de I demoni e la pasta sfoglia, recentemente riedito da Saggiatore), con Leggenda privata si entra in un’altra stanza del mondo mariano, una stanza dove per la prima volta l’autore di Tutto il ferro della Torre Eiffel abbandona lo stroboscopio dell’iper-letterario per consegnarci, stavolta noi inermi, alcuni dei più intimi segreti.

Leggenda privata, pur coi consueti stilemi cui Mari ci ha abituato, è un’altra roba. Ce ne accorgiamo subito dalla piena leggibilità del testo (Mari è sempre stato un diversamente leggibile), che, scopriamo, dovrebbe essere un’autobiografia. Dovrebbe, perché la committenza pretende invece un romanzo, la cui stesura viene sorvegliata da inquietanti lemuri (gli Accademici della Cantina: Quello che Gorgoglia, Quello che Ansima, il Mucogeno… il romanzesco che erompe) che attendono con impazienza la consegna del manoscritto. Tanto, gli ricordano malignamente, quanto ad elementi autobiografici non ti sei mai fatto mancare nulla, anzi, sono stati il tuo sale. In realtà la prospettiva di Mari è un’altra: è il romanzo, scrive, che è sempre stato il lievito della mia vita.

Nonostante la rassicurante presenza del mostruoso, nonostante il buon nascondiglio fornito dal romanzesco, Leggenda privata non è il solito Mari ed è inutile cercarvi una dialettica fra mostruosità e narrazione: qui l’unico mostro è il quotidiano e le figure che lo arredano, dall’ingombrante padre e all’abissale madre (“credo di aver preso il peggio da entrambi”), dalla fidanzatina immaginaria ai tremendi compagni di scuola, vanno a comporre un’elegia dal retrogusto comico (“ma la scusi neh? Saràa minga un cicinìn distrurbàa, ‘sto bel fioeu?”; “Tennista a casa nostra era quasi una parola oscena”). L’incedere della voce narrante fra i ricordi del passato, in particolare l’infanzia (davvero “sanguinosa”) e la prima giovinezza, è rabdomantico, ma il filo d’Arianna è ben dipanato e non ci si perde affatto: quando questi scrittori spessi si mettono a scrivere un’autobiografia, non è detto che gli venga fuori un’autobiografia (basti pensare al recente Vacche amiche di Busi), ma in questo caso, invece, ne esce una con tutti i crismi, compresa una gustosa cornice storico-sociale, non oscurata dall‘io, giustamente in bella evidenza.

Il percorso biografico di Mari è stato un progressivo immergersi nell’acquasantiera della letteratura (intesa come produzione: il consumo inizia praticamente nell’infanzia quando faustianamente comincia a trasferire parte della propria anima nei libri che legge), dai primi timidi quadernetti fino al salvifico à bout de souffle del gran rifiuto di lavorare nello studio paterno: affermando la propria vocazione letteraria, Mari trova l’inattesa forza di andare contro il padre, celebre designer, il cui disprezzo per la letteratura ha origine nella cieca fede per il funzionalismo. Proprio a partire dalla sua sprezzante definizione (il feroce lombardismo frin frin, indicante il decadimento intellettuale di cui la letteratura, “una forma di titillamento molto ma molto masturbatorio”, è massima espressione) Mari costruisce la propria idea di letteratura rivendicando senza indugi la dimensione ludica dell’espressione artistica: non tutto ciò che l’ingegno umano crea deve per servire immediatamente a qualcosa, perché

Anche i libri sono un gioco, cui rivendico con orgoglio la natura di frin frin.

Prima alle ginocchia, poi alla cintola, oggi almeno fino al collo, Mari è un uomo immerso nel liquido amniotico della letteratura, un liquido che, come ha scritto recentemente Coetzee cercando di spiegare perché la verità non sia l’unica via per raggiungere uno stato di benessere, consente di arrivare a una versione della verità che in qualche modo funzioni. Che cos’è la letteratura, nella sua più alta espressione, se non una buona semantica a nostra disposizione per dare senso all’esistenza quando la verità non lo consente?

Da allora mi sono pensato come uno che scrive quello che vive e che vive per poterlo scrivere, sicché ogni debolezza (tutta a carico della vita) si trasformava immediatamente in forza.

 

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