Bello. E forte. Come un dio. Già, Achille era tutto questo, ma aveva un punto debole. Quando era piccolo, sua madre Teti lo immerse nelle acque del fiume Stige per farlo diventare invulnerabile, ma dovette tenerlo per il tallone, l’unica zona che non si bagnò, l’unica parte mortale di un uomo immortale. Il destino stava disegnando la sua trama, Achille morì in guerra colpito proprio lì, in quel tallone.
Kobe Bryant è un giocatore di basket, o meglio è l’eroe della Nba. Simbolo del campionato più famoso nel mondo, beniamino della città degli angeli – Los Angeles – ma cresciuto nella pianura italiana, Kobe è una sorte di divinità. Ha il potere di rendere possibile l’impossibile, quando la palla è tra le sue mani sai che qualcosa succederà.
Ed è quello che stava accadendo sabato nel match contro Golden State. Bryant insegue gli ennesimi playoff trascinando i suoi Lakers, mancano tre minuti, la palla va sempre a lui. Non delude, due bombe da tre di seguito, il Mamba (così viene chiamato) c’è.
Il destino, però, aveva progettato altro. Kobe fa uno dei suoi classici movimenti – una penetrazione fatta un migliaio di volte -, ma succede qualcosa. Un rumore sordo, forte. Il dolore sul volto, il tallone, proprio quello, che fa vedere le stelle. Bryant si rialza, ma si capisce che qualcosa non va. C’è il timeout, ma lui è in un altro universo. Ha capito, il mondo, il suo mondo, gli sta crollando addosso. Il sogno sta svenendo, il tallone è andato. Non c’è bisogno di esami, lo capisce. Però ci prova, va in lunetta e reggendosi su una gamba sola infila i due liberi. E’ classe, pura. E’ carattere, forte.
E’ finita, Kobe rientra negli spogliatoi. Il dolore diventa lancinante, fa lacrimare, ma nelle lacrime c’è la delusione di un eroe che deve arrendersi al nemico imbattibile. Non è un avversario, è qualcosa che nessuno di noi uomini può controllare. Si chiama Fato, è imprevedibile e sa giocare brutti scherzi.
A fine partita, Bryant si presenta davanti le telecamere. E’ in lacrime, non riesce a trattenerle. Il dolore lo conosce bene, lui ci ha sempre giocato sopra, lo guardava negli occhi e lo sfidava: vincendo. Questa volta, però, sembra aver vinto lui. Sembra, appunto. Perché Kobe non è più un giovincello, ha 34 anni e un infortunio così grave a quell’età può rappresentare la brusca interruzione di una magnifica carriera.
Rendere l’impossibile possibile. E’ quello che Kobe ha sempre fatto con il pallone, è quello che intende fare con l’infortunio. La forza mentale e morale non può essere piegata dal dolore, il cervello e il cuore rappresentano due organi in grado di superare qualsiasi ostacolo. Mai arrendersi, la lezione dello sport, la lezione di Kobe.