E’ bastato un pomeriggio di una domenica piovosa per leggere e farsi rapire da “Proust a Grjazovec“. Ora, io non sono assolutamente il più grande esperto di Proust sulla faccia della terra, anzi, probabilmente non sono nemmeno il maggior esperto di Proust nell’ufficio in cui mi trovo ora, ma leggere questo libro è stato importante sotto molti aspetti.
Prima di tutto, se non conoscessimo che storia c’è dietro la creazione di questo libro, cosa potrei dire dell’opera di Józef Czapski? Potrei dire che si tratta di un saggio su Proust godibilissimo, una narrazione che sfocia nell’oralità e che con fare per nulla che accademico, ci racconta qualche elemento nella poetica Proustiana che non conoscevo. Il saggio è breve e ovviamente non può far luce su tutti gli aspetti dell’opera di Proust. Un’opera monumentale che ha dato vita a milioni di pagine di critica che sembrano non finire mai. Il testo di Czapski è, appunto, breve, ma è in grado, nella sua brevità, di trasmettere al lettore la passione con il quale è stato creato e di conseguenza, di farti venir voglia di prendere il primo volume della Recherce e iniziare una lettura quasi senza fine.
C’è dell’altro però. C’è quel piccolo particolare che avevo omesso all’inizio. Il dove e il come questo libro aveva visto la luce. “Proust a Grjazovec” è la trascrizione di alcune conferenze che Czapski ha tenuto tra il 1940 e il 1941 mentre si trovava prigioniero assieme ad altri poveri malcapitati nel gulag di Grjazovec. Dei quindicimila di cui Czapski ha notizie solo qualche decina si è salvata.
Il libro dunque mantiene l’oralità con la quale sono nate le conferenze ed è una prova tangibile del fatto che l’essere umano è capace di grandi cose anche nelle peggiori delle situazioni. E’ commovente fermarsi a pensare con quale spirito fossero preparate queste conferenze, con l’idea magari di dare un po’ di sollievo ai prigionieri, con la volontà ferrea di non lasciare che la propria mente fosse annientata dalle barbarie della prigionia. “Proust a Grjazovec” è una presa di posizione forte, un voler ribadire al mondo che essi, quei prigionieri, erano esseri umani con una coscienza e un cervello. Erano esseri umani rinchiusi.
A suggellare l’importanza di questo libro c’è un ottimo saggio conclusivo su Czapaki scritto da Wojciech Karpinski e tradotto da Barbara Delfino.
Il volume è la traduzione sono a cura dell’ottimo Giuseppe Girimonti Greco che su queste pagine ha già trovato spazio e che è in grado di saltare da una traduzione più “leggera” a una come questa davvero molto solenne.
Józef Czapski Tra il 1940 e il 1941 nel gulag di Grjazovec, quattrocento chilometri a nord di Mosca, un gruppo di ufficiali polacchi detenuti trova un modo decisamente inusuale, e quanto mai efficace, per resistere all’annientamento morale e intellettuale. A turno intrattengono i compagni di prigionia – accalcati in una stanza, esausti dopo le ore passate a lavorare all’aperto, nel gelo feroce dell’inverno…
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