Recensione a cura di Stefano Bonazzi.
È cosa lampante fin dalle prime righe del testo che a questo giro ci si troverà a correre tra le parole. Un movimento perpetuo di causa-effetto, si avverte fin dall’incipit e si protrae fino all’ultima pagina, questo appare il nucleo dell’ultimo romanzo di Vincenzo Pardini.
Il brigante e la sua epopea, Vlademaro Taddei, antieroe scomodo che fin dall’infanzia avverte una predisposizione intrinseca al crimine.
Rubare lo fa sentire bene, il motivo non gli è chiaro ma la soddisfazione dopo l’atto è lampante. Personaggio spigoloso dunque, di poche parole e molte azioni, non certo semplice da trattare, ancor meno da proporre, a maggior ragione oggi, in un panorama letterario omologato, votato alla correttezza su ogni fronte, il Taddei ci appare come una figura anacronistica, un villain dall’efferatezza brutale e il fascino dannato del reietto ottocentesco.
Il suo passo nell’oblio è un fatto di poche pagine. L’introduzione in una villa di benestanti, da adolescente, con conseguente doppietta di omicidi, lo porterà alla decisione di lasciare la sua terra d’origine, Bagni di Lucca, per imbarcarsi alla volta della California, terra di opportunità e bottini che aspettano solo di essere ghermiti dalla mano più scaltra.
Nel viaggio verso questo Eldorado si aggiungerà anche un compaesano, Jodo Cartamigli, figura a cui l’autore è affezionato, protagonista esso stesso di un romanzo (Jodo Cartamigli, Mondadori 1989). Personaggio ambiguo, sfaccettato, spalla indispensabile per la sopravvivenza in terra straniera, tra i due nascerà un’intesa, seguita da un’amicizia destinata a collassare, come da tradizione, lungo l’ampio spettro narrativo imbastito dall’autore.
In America si assisterà dunque alla “consacrazione criminale”; la scelta, dopo un iniziale impiego come ranger portavalori per una ditta di San Diego, di abbracciare in toto il lato oscuro della società da parte del protagonista e del suo compagno si porta appresso una consapevolezza civile e politica che si fa specchio dei problemi un’intera epoca.
Attraverso le decisioni e lo stile di vita di Vlademaro Taddei infatti, l’autore pare volerci mostrare l’esistenza di un’etica ben più complessa e stratificata del banale concetto bene/male, onesto/farabutto, alla base del brigantaggio. Un insieme stratificato di regole e comportamenti imprescindibili che si muove nel sottobosco di questa parte di società reietta, negata dalla storia, fenomeno precursore di quello che sarebbe poi degenerato nel concetto di delinquenza organizzata.
Il continuo rifiuto della giustizia diventa il cruccio dell’uomo incapace di trovare pace neppure sulla strada del ritorno in patria, a ben poco servirà sposare Angelina e avere due figli con lei: di giorno fattore tutto casa e famiglia, di notte a imbastire trame per nuove truffe, la storia del nostro si snoda attraverso ipotetici atti destinati a riprendere le redini di un moto circolare. Taddei è uomo istintuale, il testo ne è manifesto ma nella terza parte del romanzo quest’essere incattivito dalla vita assume i contorni di un ribelle stremato dalle allerte perenni e la sua aura, ora intrisa di leggenda, diventa un baluardo per i compaesani da cui lasciarsi ispirare e guidare verso un’esistenza lontana dalla miseria.
La rudezza di alcuni passaggi si rivela dunque essenziale e funzionale per calarci all’interno di un contesto narrativo in cui non c’è spazio per elucubrazioni mentali o pensieri inutilmente filosofeggianti, la penna di Pardini tiene fede al suo intento iniziale: presentarci un personaggio che “parla di sé attraverso ciò che fa”. Come un pendolo magnetico le cui sfere rimbalzano precise e costanti da un lato all’altro del telaio, la sequenza degli eventi assume una struttura elementare dall’ammaliante consequenzialità.
Un testo energico che si muove per azioni verrebbe da definirlo, macchina narrativa dagli ingranaggi ben rodati, la cui solidità di fondo si basa tutta sulla potenza trainante di una prosa abilissima nel fondere uno stile moderno, con l’utilizzo di una terminologia desueta, perfettamente integrata e bilanciata, che non si adagia un istante sulle iconografie dell’epoca da cui trae linfa.
La materia con cui veniamo al mondo è la stessa con cui siamo destinati a lasciarlo e forse non c’è altro modo per far pace con la propria natura se non quello di assecondarla per intero, in questo sembra realizzarsi l’esistenza di un disgraziato, il cui affanno incessante potrà concludersi nell’unica redenzione possibile. Nel mentre, sarà utile godersi questa corsa priva di inibizioni, senza farsi troppi scrupoli, stupefatti al cospetto di una storia trattata nella sua concezione più genuina, debitrice del magico fascino delle narrazioni primordiali.