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Il meraviglioso giuoco – Enrico Brizzi

by senzaudio

Chissà che un giorno, dopo aver letto Il meraviglioso giuoco (Pionieri ed eroi del calcio italiano, 1887-1926), agli amici della EA non venga di aggiungere a FIFA squadre come la Speranza Savona, l’Esperia Como o l’Ideale Bari. Certo, dovrebbero aggiungere variabili come l’interruzione del match per sopraggiunta oscurità o schemi di gioco come il 2-3-5 (la “Piramide di Cambridge”), ma il guadagno in termini culturali risulterebbe notevolissimo. In 278 pagine fitte di scazzottate tra ultrà coi baffi a manubrio e terzini più quotati dei centravanti, Enrico Brizzi ricostruisce l’epopea pionieristica del calcio italiano. Per farlo sceglie una scrittura tersa e lineare che nulla ha da spartire con quella rococò del suo più illustre predecessore, il Grangiuan Brera di Storia critica del calcio italiano (titolo meravigliuoso) che, ormai lo si sa, è stato qualcosa di più di un semplice “Gadda spiegato al popolo”, secondo la definizione di Umberto Eco.
Al calcio il Brizzi uomo dedica sin dalla più tenera età la santificazione domenicale, e non è quindi un caso che il Brizzi scrittore vi abbia consacrato diverse opere narrative, da Paco & il più forte di tutti a L’inattesa piega degli eventi, titolo che dava vita alla distopica trilogia dell’Italia fascista, vincitrice ma alle prese con un Dux sclerotico. Il meraviglioso giuoco deriva dalla stessa passione per l’arte pedatoria, passione che trasuda appena (dall’impressionante lavoro di ricerca) perché Brizzi sceglie la via stilistica più funzionale ad una cronistoria che si deve districare in una giungla a tratti impenetrabile, quella dei primi intricatissimi trenta campionati di calcio del nostro paese, all’insegna di gironi regionali, scissioni federali, doppioni di torneo, andate senza ritorno e risultati mancanti; il maggior pregio del libro è proprio questo: l’essere riuscito a tramutare in narratio una imponente montagna di algidi dati numerici e nominali (pensate: su youtube non troverete i gol di Santamaria che trascinarono il Genoa al nono scudetto), un po’ come se da quei cruciverboni vergati a mano (avete presente l’Almanacco Panini?) che descrivevano un campionato incrociando ascisse e ordinate, tiraste fuori una bella storia a puntate. Naturalmente i dati non sono sempre così freddi, e l’aneddotica sul calcio pionieristico è tanto ricca quanto saporosa (a proposito: l’unica pecca del libro è la mancanza di una bibliografia, probabilmente rimandata al prosieguo del lavoro).
La scrittura di Brizzi è sempre più sobria, quasi il compimento di un percorso imboccato all’altezza della trilogia di camminatore (iniziata con Nessuno lo saprà) che lo ha visto progressivamente allontanarsi dai roboanti esordi all’insegna della prosa dorata di Kerouac, verrebbe da dire lo sbocco naturale di un narratore che da anni frequenta generi prossimi alla saggistica. Il meraviglioso giuoco è infatti una puntigliosa cronaca sportiva abilmente incassata in pagine di affresco storico, pagine ben scritte, lineari, poco inclini alla sapida aneddotica breriana, più versate all’essenzialità manualistica, tanto che si potrebbe consigliare il libro a studenti svogliati con debiti storici.

La guerra aveva sconvolto l’Europa, massacrato la sua gioventù e svuotato gli spogliatoi delle squadre di calcio. Eppure il meraviglioso giuoco sarebbe risorto dalle macerie fumanti del Vecchio Continente e si sarebbe dimostrato nel corso degli anni Venti più vivo che mai: i fratelli minori avrebbero preso il posto dei caduti e nuove squadre sarebbero sorte dalle coste dell’Atlantico sino a quelle del Mar Nero, nei quartieri delle più moderne metropoli come nei villaggi di provincia.

La lettura de Il meraviglioso giuoco mette in moto un processo critico che, quando si getta sul calcio uno sguardo a 360 gradi (come insegnano autori come Massimo Raffaeli), ha qualcosa di naturale: il paese che viene raccontato da Brizzi è un paese aggravato dalle solite italiche zavorre, un paese che insegue la modernità con grave ritardo, le stesse zavorre (viene naturale pensarlo) che ancora oggi, a oltre un secolo di distanza, impediscono al nostro pallone di librarsi in volo. Brizzi è particolarmente incisivo a proposito dell’atavica debolezza della FIGC, incapace sin dagli albori, fra scissioni, campanilismi e campionati paralleli, di delineare una politica chiara e democratica; quello della Federazione è l’emblematico esempio delle enormi difficoltà postunitarie, politiche e culturali (un solo esempio: il campionato italiano rimase a lungo esclusiva del triangolo industriale), vittima di se stessa (presidenti plenipotenziari, ennesima dimostrazione dell’endemico feudalesimo italiano) e delle squadre da club (ma va). Di fronte ad un panorama martirizzato dall’inerzia, emerge che se evoluzione c’è stata (pur sempre l’evoluzione di un “paese mancato”, nella nota definizione di Crainz) è stata in virtù di singoli esseri umani votati ai mulini avento, se evoluzione c’è stata, è stata in virtù dell’affioramento di individualità che da sole hanno ingaggiato battaglie donchisciottesche (forse l’Italia è il paese mancato dei Don Chisciotte che “portano a casa il risultato”), nella fattispecie personaggi cervantesiani come Vittorio Pozzo o, anni dopo, Enzo Bearzot.
Il meraviglioso gioco è un’opera divulgativa (nella sua accezione migliore, tanto più trattandosi di un argomento che è schiavo di visioni settarie o monocolari) che per scelta non scende in pseudoscientifiche disquisizioni tattiche e grevi cliché epici, un libro che potrebbe venir utile per recuperare persone dall’inferno delle logomachie sul fuorigioco o dai ghiacci del calciomercato perenne; è un libro molto onesto che racconta di un gioco che ha smesso prestissimo di essere tale, molto prima di quello che l’opinione comune creda (quasi che, nella nostra perversa micragnosa visione della realtà, la tv possa essere l’unico moloch capace di scombinare la natura delle cose…), un’opera in cui il valore della memoria assume il meritato rilievo, insegnandoci ad avvicinare al calcio celebrità come D’Annunzio (ottimo inventore dello “scudetto”, pessimo comunicatore (inferiore a Ojetti) in quanto a volantini…) o carneadi come Vivian Woodward, centravanti del Tottenham e poi del Chelsea (23 presenze e 29 reti (!) nella nazionale britannica), che, nonostante le gravissime ferite riportate nella Grande Guerra, era tornato in campo per una manciata di partite, ovviamente andando in gol.
Buon campionato a tutti. E forza Fratellanza Sportiva Sestrese.

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