La cosa che spaventa di più leggendo Gore Vidal è che può aver scritto anche un libro nel 2000 e può anche averlo ambientato tra il 1939 e il 1954, ma il suo essere attuale mette i brividi. Viene da pensare che non ci sia stata una vera evoluzione dei costumi, della società e degli esseri umani che che tutti noi stiamo vivendo in un’unico fotogramma congelato nel tempo che non muta, ma sbiadisce.
“L’età dell’oro” (The golden age nell’edizione originale) è uno dei volumi che va a comporre la serie “Narratives of empire” in cui Gore Vidal ha l’ambizione di raccontare in sette libri la costituzione dell’impero americano partendo dalla guerra di indipendenza.
“L’età dell’oro” è ambientato nell’ambiente cinematografico americano. Le discussioni tra neutrali e interventisti prendono vita mentre in Germania si assiste alla continua ascesa del nazismo. Il mondo è in guerra, l’Europa è messa a ferro e fuoco. Riassumere in poche righe la trama di questo libro un’impresa quasi impossibile. Cinquecento pagine zeppe di personaggi, di trame che si intrecciano, di considerazioni sulla situazione politica americana e sullo spettro della guerra vista da un’ambiente privilegiato. Roosvelt che ottiene un terzo mandato (poi un quarto) per guidare l’America nel conflitto. Attori e attoruncoli che si gettano in conflitti personali che alla luce dei grandi fatti sembrano poca poca. Gente meschina, sognatori, distruttori di sogni e poi Gore Vidal personaggio del suo stesso libro.
La scrittura di Vidal a volte odora di giornalismo militante, altre volte dà l’impressione di nascondere la volontà di indottrinare il lettore. Ciò che però risata, secondo il mio parere, è la capacità meravigliosa che permette a Vidal di scandagliare la società. Parte da un presupposto molto importante. Gli individui che abitano un luogo nel tempo e nello spazio sono un’emanazione di quel luogo nel tempo nello spazio. Quindi non è possibile parlare del generale senza affrontare il particolare. Non è possibile raccontare una società evoluta senza parlare di coloro i quali contribuiscono alla costruzione di quella società. Ecco perché un romanzo ti tale portata e di tale complessità (soprattutto se calato all’interno del progetto “Narratives of empire”) porta alla luce dei tratti che sembrano universali e che sembrano essere perfettamente calati nel presente che stiamo vivendo e che purtroppo lasciano intravedere un futuro poco luminoso.
La traduzione di questo libro è stata affidata a Luca Scarlini. A mio modo di vedere un lavoro davvero bene fatto.
Nato nel cuore della vita politica statunitense, da bambino ha vissuto a lungo con il nonno Thomas Pryor Gore, senatore, che in seguito sarebbe stato un oppositore di Franklin Delano Roosevelt. Dopo aver militato nel Pacifico settentrionale come volontario durante la Seconda Guerra Mondiale, debuttò con Williwaw (1946), che raccontava esperienze belliche (come ben riassume presentandosi come personaggio in L’età dell’oro), cui fece seguito un’opera simile, In a yellow wood. La sua notorietà esplose però con The city and the pillar del 1948, intitolato successivamente nelle varie versioni italiane La città perversa, Jim e La statua di sale. La storia di Jim Willard, marchetta e maestro di tennis, ossessionato da un amore romantico e irraggiungibile, che per la prima volta presentava l’omosessualità negli USA in chiave realistica, senza sottolineature comiche, né tanto meno con il facile ricorso al melò, fece scalpore e determinò la fisionomia dell’autore nel mondo delle lettere e della politica americana, dove ha sempre avuto il ruolo di strenuo oppositore del conservatorismo. Dopo la pubblicazione, che suscitò reazioni violente, ma che gli procurò estimatori autorevoli (tra cui Christopher Isherwood e Thomas Mann, che parla a lungo del romanzo nei suoi Diari), passò quindi a lavorare in teatro, in televisione e nel cinema, dove firmò sceneggiature importanti, tra l’altro, notoriamente, per Ben Hur e in seguito per Improvvisamente l’estate scorsa di Joseph Mankiewicz e per Parigi brucia? di René Clement. Due i percorsi fondamentali nella sua opera narrativa: da un lato il contributo notevole e determinante a una nuova concezione del romanzo storico con il ciclo in sette libri della storia dell’impero americano, da Washington D.C. del 1967 fino a L’età dell’oro del 2001, che parla di Pearl Harbor e di Roosevelt, passando per Burr del 1974, che resta forse il titolo più notevole della serie, dedicato al personaggio più controverso della storia USA, Aaron Burr, di cui disegna uno straordinario ritratto. L’altro filone fondamentale è quello che lo presenta come attento osservatore del costume e dei way of lives americani ed europei e qui, sulla linea di The City and the Pillar, sono da citare senz’altro l’incantevole trans-commedia Myra Breckinridge del 1968, che ebbe grande successo di pubblico e critica, Due sorelle del 1970 e Duluth del 1983; infine va citato un dittico di opere dedicate a una riflessione su temi spirituali declinati in forme peculiari: Kalki (1978) e soprattutto In diretta dal Golgota (1992). Straordinario saggista e polemista, ha sempre svolto un ruolo di testimone scomodo della vita americana, come ricostruisce nell’autobiografia Palinsesto e come ben dimostrano anche i saggi raccolti ne Le menzogne dell’impero, tratti per lo più dalla silloge The Last Empire; da segnalare infine la sua carismatica presenza come performer, ribadita in infiniti dibattiti nel corso delle campagne elettorali sue o a sostegno di altri (di cui resta memorabile il celebre scontro televisivo del 1968 con Buckley) e non va dimenticata la sua sporadica carriera come attore cinematografico, di cui è notevole esempio il bel cameo come senatore liberal in Bob Roberts di Tim Robbins del 1992. Amante dell’Italia, che ha sempre considerato una seconda patria, ha vissuto tra Los Angeles e Ravello, sulla costiera amalfitana.