“Solo ora il ragazzo si è spogliato di tutto ciò che è stato. Le sue origini sono diventate remote come il suo destino, e in tutto il volgere del mondo non ci saranno mai più territori così selvaggi e barbari in cui verificare se la materia della creazione può conformarsi al volere dell’uomo o se il cuore stesso non è altro che un diverso tipo di creta.” Cormac McCarthy, Meridiano di sangue.
Giocando a semplificare, Breaking Bad si potrebbe definire “un’allegra storia di droga tra amici”, mentre il romanzo di David Joy, pubblicato in Italia da Jimenez Edizioni con il titolo “Dove tende la luce”, è una “breaking bad in famiglia”, un tragico barbecue, in cui si brucia qualunque cosa, qualunque sentimento, qualunque valore si possa immaginare.
Bello questo invito alla lettura! Che ne dite?
Non spaventatevi, non tiratevi indietro, leggere questo romanzo sarà tempo ben impiegato, per capire fino a dove può arrivare la disperazione, la tragedia, lo schifo di una ordinaria vita quotidiana, pur non organizzando un genocidio, un attentato a dei grattacieli o in una scuola, il sequestro di una nave da crociera piena di miliardari, o l’invasione di uno Stato che ci sta antipatico. Le tragedie della disperazione, della povertà non solo economica ma morale, culturale, affettiva, sono lungo la tromba della scala C del nostro complesso condominiale, nelle facce che incrociamo al discount, o in quelle di chi vive solo, solo senza nessuno che abbia a cuore la tua esistenza. Questa storia va letta, almeno per provare ad immaginare, per educare lo sguardo, per affinare l’udito e cogliere qualche richiamo, un alert, per non abituarsi alle pubblicità o ai quiz pre-serali.
Il romanzo è ambientato nella Carolina del Nord, ed inizia con tre capitoli che ospitano ciascuno i tre attori principali di questa storia familiare: Jacob il figlio, la madre e il padre. La famiglia McNeely.
Il ragazzo viene cresciuto da genitori sballati, violenti, ladri, tossici. Il padre fa il meccanico d’auto, ma solo per coprire ciò che di più redditizio viene da altri commerci, mentre la madre, devastata dai vizi, (e senza dubbio anche dal marito) la conosciamo già in condizioni disperate.
Il figlio è stretto tra le spire di questo padre pazzo, instabile, violentissimo, con la mente abitata dal cancro del male in ogni anfratto. Porta il figlio sulle peggiori strade, e anche sulle strade del male non gli insegna nessuna “regola” nessun codice d’onore, che non giustificherebbe nulla, ma … niente, lo porta nel fango più sporco, maleodorante e profondo, da cui potrebbe non uscire più.
E Jacob si arrabatta, tenta di difendersi, tenta di uscirne, di andarsene, fuggire via da lì, resiste, qualche volta. Fuori dalla cerchia dei diavoli familiari, avrebbe anche uno stimolo umano positivo a farlo. Ci riuscirà?
“Feci quello che mi aveva detto di fare.”
Fatte le presentazioni, giusto il tempo necessario per inquadrare il gruppetto, si entra subito nel vivo della vicenda che l’autore ha scelto di raccontarci con una modalità a tratti da giornalista di cronaca, perché dopo poche pagine sembra di ricordare di aver già letto notizie sui McNeely nel quotidiano locale, sembra di conoscerli da tempo. Ma la narrazione di David Joy non è una cronaca spiccia, non è dare la notizia e basta, ma entrarci davvero dentro, al cuore delle vicende, nel cuore delle persone, nella fatica di ciascuno e soprattutto di Jacob, il futuro dei McNeely, colui che soffre più di tutti, incastrato in un meccanismo perverso, dal quale più si sforza di evadere, più sembra essere trattenuto.
“In pochi minuti, morire era diventato semplice. Era vivere che mi faceva paura.”
Questo ragazzo, che più volte mi ha fatto pena, sembra caduto nelle sabbie mobili, tanto che già nelle prime righe del romanzo lui sale sulla torre idrica, sale in alto, come se avesse un presagio.
Ma è solo un attimo. Jacob vive in basso, è schiacciato nell’abisso umano dalle parole e dai gesti violenti del padre, dal silenzio complice inconsapevole della madre.
Appare ad un certo punto una sorta di angelo custode, un personaggio apparentemente marginale, ma che l’autore coinvolgerà ancora, in modo sapiente, poco prima della fine. Ma come dico spesso nelle mie recensioni, ora basta, non serve altro. Leggete “Dove Tende la luce”!
Il romanzo di David Joy, a cui ho già espresso la mia gratitudine per averlo scritto, mi ha fatto pensare quasi subito a “CRUM” di Lee Maynard. L’atmosfera è simile, magari non così drammatica, non così graffiante, ma l’odore nell’aria è lo stesso. Leggeteli entrambi e poi ne parliamo.
“Lontano dove l’indiano fissava, il sole sprofondava per sempre.”
Traduzione di Gianluca Testani.
Buona lettura.
Claudio Della Pietà