Depeche Mode Live 2013 @Roma

by senzaudio

dave_micro

{A Story Of Us}

Scendi dal treno e ti compiacci che il ritardo sulla tabella di marcia è appena di una manciata di minuti, il che ti fa mentalmente visualizzare l’espressione “assolutamente irrisorio” giustificata dall’essere in viaggio ormai da più di tre ore e mezza.
Fa caldo, molto caldo.
Se fai un salto temporale all’indietro di 6 mesi vedi te stesso nell’istante in cui compri online i biglietti per il concerto che i Depeche Mode hanno in programma proprio a Roma –Stadio Olimpico – il 20 luglio 2013. Ti compiacci di questa sorta di spirito giovanil-adolescenziale di ritorno che collide con la data scritta sulla carta d’identità.
Ad ogni modo ora sei alla stazione Tiburtina – scortato ed esortato da tua moglie – e pianifichi gli ulteriori spostamenti in direzione dell’obiettivo finale. Il menù prevede: Metropolitana A – Metropolitana B – autobus di linea per raggiungere l’albergo nelle vicinanze dell’Olimpico, fare base ed uscire alla conquista dell’ agognata posizione in parterre.
Fa caldo, molto caldo. Troppo caldo.
Arrivi all’albergo constatando che oggi le congiuzioni astrali ti sono favorevoli: ti muovi con incredibile disinvoltura fra le mappe ed i percorsi tortuosi delle Stazioni Tiburtina e Termini tanto da farti ipotizzare la bizzarra idea di essere stato concepito in metropolitana. Il tutto si concretizza nell’aver abbattuto quasi a zero i tempi di trasferimento. La parola “parterre” comincia a rimbombare ripetutamente nella tua testa.
Ora, tutta questa esecrabile frenesia muove da un unico dato di fatto incontrovertibile: sei cresciuto a pane e Depeche Mode. Era la “tua” band a 15 anni. Da Just Can’t Get Enough, per i rigorosi. Sì, Vince Clarke. E, sì, Alan Wilder. Hai smodatamente consumato Music for The Masses, li hai acclamati al Devotional Tour, hai criticato Exciter. Gli ultimi anni sono stati un sali e scendi ma consideri l’ultimo album – Delta Machine – un perfetto bilanciamento fra rinnovamento e tradizione.

Sono le 15:30, esci dall’albergo in direzione Olimpico.

Si collassa dal caldo. Non è più sudore ma sublimazione. Si affaccia anche la stanchezza. Poco dopo arrivi all’Olimpico ma, per la legge dei grandi numeri, l’entrata è quella sbagliata. La circumnavigazione a piedi dello stadio si mangia mezzora. Il caldo ti toglie ogni capacità di pensiero. Attorno alle 16:15 sei gloriosamente in coda e il sole a picco non dà nessuna tregua. Venditori abusivi di bibite ed ombrellini fanno affari vergognosi.
Alle 17:40 entri nell’arena con gli arti inferiori parzialmente anchilosati causa immobilità_da_fila ma ti butti ugualmente giù a precipizio – dalle tribune verso il parterre – producendo l’ultimo sforzo. Arrivato a destinazione valuti zona e posizione, estrai un telo mare e picchetti il tuo territorio. Tutto sommato la 30na di metri di distanza era il meglio che potevi aspettarti con il biglietto acquistato. Gli early entrance sono ovviamente confinati in un recinto riservato immediatamente sotto il palco, a pochi metri da Gahan & soci.

Sei pienamente consapevole che manca ancora troppo tempo alle 21:00 e devi recuperare energie. Bevi fiumi di acqua. Mangi un paio di panini più per toglierti il pensiero che per reale necessità.
Guardi in giro e fai una scansione per fasce d’età: una band che ha più di trent’anni di carriera alle spalle abbraccia almeno tre generazioni. Dai ventenni ai cinquantenni, ci sono tutti. Vedi anche quadretti familiari mamma-papà-figlio, magari al primo concerto.
Alle 19:00 iniziano i Motel Connection, l’incarnazione dance dei Subsonica, a scaldare il pubblico. Il parterre è già gremito di anime in movimento. Gli spalti presentano ancora diversi spazi vuoti.
Fa un po’ meno caldo. Qualche timida brezza cerca di farsi largo in mezzo all’ammasso di corpi. La voce di Samuel fa muovere mani e gambe. A seguire è il turno di Matthew Dear, musicista/DJ americano che propone una funambolica techno psichedelica che meriterebbe un ascolto più attento.
Poi ti giri verso gli spalti e li vedi spaventosamente pieni, un alveare umano che si illumina alternativamente all’accensione erratica dei cellulari. Attorno a te il parterre è una distesa infinita di teste, fotocamere, cellulari, tablet. Ora il caldo non è più un fattore meteorologico ma uno scontro di masse corporee.

Alle 21:15 scatta l’ora X.
60.000 persone urlano sulle note iniziali di Welcome to My World, ti ritrovi accerchiato da marcantoni alti uno_e_novanta e speri di trovare un pertugio per vedere un po’ meglio. In mezzo al delirio la voce di Dave Gahan è nitida e potente, il palco rivela un impianto luci spettacolare e i maxi schermi aiutano a catturare dettagli anche ai fans appollaiati sull’anello più esterno delle tribune.
Il ritmo si alza con il tappetto elettronico di Angel, seguita da una Walking in My Shoes cantata all’unisono da tutti. Da qui in poi l’impatto sonoro e scenico della band è supportato con estro creativo dai visuals proiettati sui maxi schermi. E si rimane più volte a bocca aperta.
Dopo Precious, irrompe Black Celebration, gli schermi dietro al palco si oscurano e il tempo si ferma. Torni indietro di 30 anni. Siamo tutti avvolti all’interno dell’atmosfera più dark della produzione della band. Tutto lo stadio è un unico cuore pulsante nero.sbh_micro
Policy of Truth ci scrolla dalla Celebrazione Nera. Dave Gahan non si risparmia: voce, balletti, ammiccamenti, salti, piroette. L’asta del microfono è usata ora per provocare il pubblico ora per esigere un coro. Non è blasfemo vedere nella sua presenza scenica quella dei miti della sua generazione, David Bowie e Mick Jagger tanto per scomodare due alieni. Should Be Higher alza i bpm ed i maxischermi illuminano gli occhi grazie ad alcune riprese video effettuate in una sorta di fonderia.

boag_microCon Barrel of a Gun il corpo centrale del sistema di luci motorizzate scende sopra la band come un’astronave in un film di Spielberg. Stai regredendo ad uno stato pre-adolescenziale e non te lo puoi permettere. Voce e luci sono un tutt’uno, l’asprezza del brano si specchia nella supernova che galleggia sopra il gruppo.

Ora il ricordo atterra dritto su Shake the Desease, cantata da Martin Gore in versione acustica. Ti ritrovi a pensare che sono arrivati martin_microall’apice della loro maturità artistica se hanno il coraggio di inibire il loro marchio di fabbrica, il suono sintetico, per produrre una versione rallentata, intimistica e siderale, di un grande successo del passato. Lo stadio accompagna Martin battendo le mani a tempo e abbracciandolo in una nuvola di cellulari accesi.
Il tempo per risentire Heaven, e poi è un fuoco di fila senza soluzione di continuità: mani, teste e gambe si muovono al ritmo di Soothe My Soul, A Pain That I’m Used To (in un remix live che nell’umile opinione di chi scrive spacca di brutto ‘na cifra), A Question of Time, Enjoy The Silence, Personal Jesus.

Pain
Ci si avvia verso l’apoteosi finale: gli encore vedono gli evergreen Just Can’t Get Enough e I Feel You (decisamente psichedelica), per un sipario che alla fine si chiude con l’Olimpico che tenta un esperimento di telecinesi collettiva al ritmo di Never Let Me Down Again.
Lo stadio è un unico essere senziente.

Non fa più caldo.
Non sei più stanco.
Non.
Hai.
Più.
Sete.

Fede. Devozione. Musica per le Masse.
Ora Goditi il Silenzio, la musica è tutta dentro.
Grazie per gli ultimi trent’anni+.

“See the stars they’re shining bright
Everything’s alright tonight”

Commenti a questo post

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1 comment

matteo 7 Agosto 2013 - 9:04

sempre e solo DM….!!

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