Avrete sentito questa frase centinaia, forse migliaia di volte. Di certo continua ad essere ripetuta ogni qualvolta si parla di olocausto, fascismo o nazismo. E’ di poco più di un mese fa la polemica legata ai funerali di Erich Priebke, diventati in poco tempo pretesto per propaganda politica e motivo per tentare di riaprire il dibattito su nazismo e olocausto. La proposta di istituire il reato di negazionismo ha colpito alcune coscienze liberali vogliose di affrontare un dibattito, più che per amor di verità, per ottenere visibilità e coinvolgere le persone con tesi più o meno strampalate.
Una discussione affascinante, che ricorda a tratti le trasmissioni sportive sia per toni usati che per futilità degli argomenti. “Quanto erano cattivi i nazisti?”, “Quanto di quello che si dice sull’Olocausto è vero?”, “Quanto è cornuto l’arbitro?”. Belle domande, che drammaticamente non troveranno mai risposta unanime in un mondo in cui tutto è opinabile e pretendere un minimo di decenza dalle persone viene considerato un sopruso. Va bene così: in fondo è per questo che qualcuno settant’anni fa ha fatto il partigiano e forse è proprio per questo che in alcuni ci sono ancora nostalgici rigurgiti e reflussi.
E’ grazie al 25 aprile, infatti, che ognuno di noi ha diritto a dire una puttanata senza senso ogni tanto. Probabilmente arriverà il giorno in cui il nazismo sarà considerato come un movimento politico come tanti e l’olocausto sarà ricordato soltanto per quel film triste in bianco e nero con la bambina dal cappotto rosso: forse è impossibile impedirlo, anche se di motivi per lottare comunque non ne mancherebbero. Quello che però si può impedire, almeno fintanto che ci sarà gente di buona volontà a questo mondo, è la negazione dell’orrore.
L’uomo che perde i suoi valori e la sua valenza, diventando soltanto un numero, una statistica, una piccola formica che deve essere funzionale all’ingranaggio o quantomeno non costituire un ostacolo al “bene comune”, se non vuole essere lasciato a se stesso e al suo destino, se non vuole essere direttamente eliminato. L’uomo che vale soltanto in virtù della sua utilità e non che deve essere amato e rispettato in quanto essere umano sin dalla nascita: questo era l’orrore e di fronte alla sua negazione, un uomo non può restare in silenzio perché anche solo l’indifferenza o l’inedia rappresentano un crimine contro l’umanità, come l’inedia e il silenzio dei popoli di fronte all’olocausto è stata e sarebbe ancora un crimine contro l’umanità.
Per questo lottare diventa un dovere a scapito anche dei diritti: è combattendo la negazione dell’orrore, che possiamo definirci ancora oggi “partigiani” e come tali costruttori di libertà. Ma non basta ricordare fatti di settant’anni fa, indignarsi e prendere a sputi una bara a un funerale: se chi dimentica il passato è destinato a ripeterlo, chi resta indifferente al presente è destinato a perdere sé stesso.
Ecco perché è sempre più forte la convinzione che se ci fermassimo un istante a riflettere scopriremmo che tra guerre, fame, disperazione e barconi, l’orrore è ancora in mezzo a noi. E non possiamo più restare a guardare o fingere di non sapere perché oggi l’unico modo per non ripetere il passato, è diventare partigiani delle coscienze del presente.