Tornata da una settimana in Belgio, è difficile mettere insieme le opinioni formate lì sul posto: un giro breve che però ha toccato vari punti della nazione con stanza nella capitale, Bruxelles.
Non mi soffermerò sulle deliziose “casette a scalini” (come le chiamava la mia compagna di viaggio) o sui magnifici canali attraversati in barca di Brugge e Gent, né sulle acque fredde e i gabbiani malefici – rubacibo di Oostende; ciò di cui voglio brevemente raccontarvi è lei, Bruxelles, capitale del Belgio e dell’Europa.
Atterriamo a Zavantem, aeroporto principale della città, da cui si arriva in centro con un brevissimo viaggio in treno: se pure la stazione dell’aeroporto ci sembra degno scenario di un gran film dell’orrore non c’è nulla da dire sull’efficienza e la praticità del servizio, che ci porta fino a Bruxelles Midi. Qui sorge il primo problema, o meglio, il primo interrogativo: se pur perfettamente consapevoli che il Belgio è una nazione bilingue – fiammingo/francese – non eravamo pronte alla scoperta che tutto, anche i nomi delle stazioni sui display dei treni, riportano entrambe le versioni. Dovremmo scendere a Midi o a Zuid, dunque? Risolto il dubbio, comunque, arriviamo al nostro appartamento senza troppe difficoltà, se non quella di ottenere indicazioni stradali.
Quella del bilinguismo, in realtà, è un’ottima cosa: immagino tutti questi piccoli bimbi che, superato il primo momento di confusione linguistica – immaginate uno che vi canta la ninna nanna con un forte accento olandese e la sera dopo la mamma che vi sgrida in un melodioso francese di Parigi – a tre anni hanno delle conoscenze pari a quelle di uno studente al primo anno della facoltà di Lingue straniere. Ma – perché c’è sempre un ma – per alcune persone la cosa si ferma qui. Se noi italiani siamo uno dei popoli con meno conoscenza delle lingue straniere, inglese in primis, e il mea culpa è d’obbligo, i belgi che io ho incontrato non sono da meno: al mio costante “Sorry, can we speak in English?” la risposta era un grugnito e qualcosa che, suppongo, fosse “No, io parlo in francese punto.”
Sarà sicuramente un caso, sarà che comunque il francese è una lingua molto parlata, sarà che si pretende sempre tanto dagli altri – potevo sapere io il francese, sarebbe sicuramente stata una cosa ottima per me e per tutti – ma sta di fatto che io la metà delle volte ho dovuto ordinare a caso dal menù. E questo, in quella che solitamente viene descritta come una città cosmopolita, internazionale e quant’altro, non me lo aspettavo.
Il secondo interrogativo è dunque questo: ma se viene un ambasciatore giapponese a pranzo al vostro ristorante, voi grugnite e lo lasciate abbandonato alla “Kippensoep”? (per la cronaca: zuppa di pollo).
Quando sono tornata, ho notato che le persone reagivano in due modi quando dicevo loro che si, il Belgio mi era piaciuto molto, Bruxelles molto meno: chi annuiva, dicendo “te l’avevo detto” e chi invece replicava con un “ma come è possibile! E’ così giovane!”. Suppongo che la prima reazione fosse di quelli che, come me, non amano particolarmente un certo tipo di città moderna, con un centro molto carino ma intere zone completamente scollegate, “da scoprire” – e che quindi in una settimana non fai neanche in tempo ad apprezzare. Dico la verità: per me, per come immaginavo io il posto dove venivano decisi affari internazionali, il cuore della politica europea, Bruxelles è stata una grossa delusione.
Chiariamoci: io non sono un’Euroscettica, io nell’Europa ci credo eccome, ma vederla rappresentata così, con le scale del metrò (Schuman) in ristrutturazione, le gru davanti al Parlamento, il quartiere UE vuoto, triste, il centro città sporco, i mezzi pubblici che non hanno nulla da invidiare a quelli italiani (ATAC, non pensavo ti avrei desiderata), beh, vederla così mi ha fatto tristezza. E mi ha fatto anche rabbia: a tutti quelli che – a ragione – si lamentano del nostro paese, della sua disorganizzazione, degli infiniti problemi ed idolatrano tutto il resto del mondo, poco importa che l’abbiano effettivamente visto o meno, ecco, a tutti coloro consiglierei di aspettare il premetrò (una specie di metropolitana/tram sotterraneo) per più di un quarto d’ora in una stazione priva anche solo di una sedia e con i fili elettrici scoperti sulla testa, e solo poi lamentarsi – mi ripeto, seppur in maniera sacrosanta – degli interminabili lavori della metro C a Roma.
Una rapida capata ad Amsterdam (a distanza di un paio d’ore abbondanti in bus) non ha migliorato la situazione della sua vicina: la capitale olandese è uno spettacolo, senza bisogno di aggiungere aggettivi. Inutile dire che lì, intuito automaticamente che ero una turista, le persone si rivolgevano a me direttamente in un perfetto inglese.
Tornerò a Bruxelles? Probabilmente no, a meno che non ci sia qualche ragione per andare appositamente. Certo, sarebbe bello andare lì tra qualche anno, quando – si spera – la situazione politica europea sarà migliore, più stabile, e controllare se le scale del metrò avranno finito di essere sistemate.
Chissà, magari le cose procedono di pari passo.