Il monologo dell’agente Smith preso da Matrix, Soave Patria, Thomas Mann e la sua Montagna magica, lo scarno esercito Messicano che non ha mai partecipato alla guerra, ombre di morte, droga, dipendenza. Madre. Puttana.
Quello di Julián Herbert è un libro che ti prende a scossoni. Entra lentamente da dietro e ti prende a randellate sulla testa. La storia, se la vogliamo rendere in poche parole, è molto semplice. La madre di Julián/il narratore ha il cancro, è in terapia, ha fatto cicli estenuanti di chemioterapia e nessuno può sapere se ce la farà oppure no. Julián racconta la sua storia che è anche la storia di sua madre. Di un rapporto di odio e amore. Lo stesso odio e amore che sembra riservare alla propria patria. Soave patria, come lui la definisce non senza un filo di caustica ironia.
Fin qui lui potrebbe sembrare un figlio come tanti e lei potrebbe sembrare una madre come tante. Ed invece la madre ha cresciuto i figli da sola, lavorando come prostituta e il figlio, forse scosso da queste esperienze ha intrapreso la strada della droga.
Sarebbe riduttivo considerare quello di Herbert come un libro semplicemente autobiografio. Il tono spietato, graffiante utilizzato per descrivere la propria vita e la dipendenza dalle droghe hanno anche il potere di metterci di fronte alla crudeltà delle nostre dipendenze, per quando piccole ed innocque esse possano sembrare. Inoltre, il rapporto che ha Herbert con la paternità è emblematicamente fallato. Risente del carico emotivo della vita vissuta saltando da un paese all’altro con la madre. Il passato carica il suo futuro di incertezza, di inadeguatezza, di ipersensibilità a quello che potrebbe essere il suo ruolo di padre.
Herbert non fa sconti a nessuno, non li fa alla madre morente (che non subisce un processo di redenzione a causa della prossima dipartita), non fa sconti a se stesso, ne alla patria che troppe volte gli è sembrata distante e menefreghista.
La dote principale, qualla che lo caratterizza ai miei occhi è la spietata onestà con cui Herber Julián affronta il rapporto con la madre, ma anche quello con sé stesso. Non ammicca al lettore cercando di instillare in lui un sentimento di simpatia o di pena. Lo mette semplicemente di fronte ad un dato di fatto: io sono così. Quanti di noi sarebbero in grado di farlo?
“Ballata per mia madre” è un libro grandioso, portato in Italia da una piccola casa editrice che evidentemente si da molto da fare con la ricerca di tesori nascosti. Gran Via mi aveva già piacevolmente stupito con Moncada e il suo “Testamento dei fiumi“, ora mi ha nutrito con questa ballata. Spero in un tris di uguale intensità emotiva.
Una nota di merito, un apprezzamento del tutto personale, e quindi da parte di chi non finge di saperne di questioni che gli sono distanti, va a chi ha curato il progetto grafico. Quel Mirko Visentin che si è inventato una copertina da guardare negli occhi ogni volta che si prende in mano il libro.
Chiudo segnalando la traduzione di Maria Cristina Secci, se ho sentito così forte la necessità di aprire e riaprire il libro senza sentirmi mai soddisfatto fino alla fine lo devo anche a lei. La delicatezza con la quale riesce a tradurre una storia così personale, così ruvida e tagliente lascia esterefatti.