Da un po’ di tempo a questa parte l’apocalisse Zombie è diventata fenomeno trendy. Dopo gli exploit di Romero negli anni addietro, grazie alla saga di Resident Evil è ripartito il genere. Per limitarci alla stretta attualità, è da poco è iniziata la quarta stagione della serie “The Walking Dead”, e in Dvd è disponibile il film “World War Z” firmato Brad Pitt. Diversi film, diversi pareri, diverse storie… ma la domanda che assale la gente è una sola: cosa ci insegna il genere Zombie?
Con solerzia e profonda incoscienza, ecco dieci consigli utili per sopravvivere all’invasione dei morti viventi:
1. Restate in gruppo. E’ la prima regola: uniti si vince. E si sopravvive. E poi, da soli, come potreste fare le puttanate che immancabilmente in un film di Zombie compie un gruppo di sopravvissuti, indipendentemente dalle probabilità di salvezza?
2. State alla larga dal tipo con gli occhialini. Chi ha gli occhialini è sempre quello istruito e con una posizione rispettabile all’interno della società. Quando la società crolla, immancabilmente va fuori di testa e si fa prendere dal panico, facendo morire qualcuno del gruppo, minando l’autorità del tipo che sa cosa si deve fare e facendosi ammazzare da infame, dopo aver tradito tutti. Se siete capitati durante un’epidemia Zombie e tra voi vedete qualcuno con gli occhialini, sparategli subito. Deus lo Vult.
3. Trovatevi un nero. I neri sono grezzi, forti fisicamente, sgobboni, parlano da duro, non trombano mai la protagonista del film e muoiono da eroi, salvando tutti grazie alla forza fisica o a un sacrificio epico. In pratica, sono loro che fanno tutto il grosso del lavoro e poi sul finire della storia si levano dalle balle salvandovi pure la vita. Quelli neri sono utili: se sono Americani, sanno anche come si fa partire una macchina senza le chiavi, ma quello, se venite da certe zone della periferia metropolitana, non è un problema. Non esistono neri con gli occhiali.
4. La tipa precisina, innocente e carina è sempre destinata a finire sbranata. Non perdeteci tempo: già è quasi di sicuro una f*** di legno che non la smolla mai, ma poi tendenzialmente non è mai una grande sgobbona e non sa usare il machete, come ogni buona donna dovrebbe saper fare in caso di apocalisse, quindi non è di molta utilità. Meglio usarla per sfamare bocche, che averla come bocca da sfamare.
5. I cinesi fanno comodo. Sono piccoli, rapidi, funzionali. Difficilmente vanno nel panico. Forse perchè sono razionali, forse perchè sono comunisti e mangiano i bambini, quindi sono abituati al cannibalismo: non l’ho mai capito di preciso. Comunque tutto sommato sono validi e utili in caso di apocalisse. Dicono anche che siano bravi in matematica, che nel caso può tornare utile se dovete dar ripetizioni ai figli. Di solito sopravvivono insieme ai due protagonisti, per diventare un po’ i tuttofare nel post-apocalisse.
6. Occhio ai latinos. Se assomigliano all’omino Bialetti e tengono famiglia, di solito vi chiameranno senor e dovrete tenergli i figli quando verranno mangiati. Se invece assomigliano a Machete sono più che funzionali, anche se tendenzialmente potrebbero tagliarvi la gola per rubarvi la merendina.
7. La chiave è sempre la gnocca: se la gnocca del gruppo non vi fila neanche di striscio, non siete voi il protagonista. Significa che in un modo o nell’altro morirete. In maniera più o meno anonima o eroica, ma di certo morirete: meglio formare un nuovo gruppo con una magari meno gnocca ma più sicura. Se la gnocca del gruppo vi fila, fate due conti: se è capace di ammazzare gli zombie, significa che voi sarete l’ultimo del gruppo a morire, magari salvandole la vita, prima che l’epidemia venga debellata e lei resti sola, alla ricerca di qualcuno da trombare che magari se ne è stato per tutto il tempo chiuso in casa a giocare a Farmville. Se non è capace di ammazzare gli zombie, allora il protagonista siete voi: prendetevi una pausa da tutto questo, salutate gli altri del gruppo e spassatevela. Tanto la farm ve la controlla il cinese, al limite.
8. Le bambine creano sempre dei problemi. Piacciano o non piacciano, sono inevitabilmente destinate a perdersi o a infettarsi, costringendovi a ricerche disperate, lotte all’ultimo sangue e magari pure a sacrificarvi nel tentativo nobile di salvare qualcuno che, senza di voi, è destinato a durare il tempo di un vassoio di pizzette durante un happy hour in Somalia. In aggiunta, siccome non si sopravvive mai a un film zombie in più di tre, per salvare lei dovreste rinunciare alla gnocca o al cinese. Non ne vale la pena: se avete una bambina nel gruppo, affidatela a quello con gli occhialini e alla tipa precisina: l’uomo non separi ciò che Dio ha inteso come antipasto, pasto e dessert.
9. Armi, armi, armi. E’ sempre stato il mio cruccio: in America sono messi bene, con più armi che cristiani nella nazione. Da noi diventa dura, a meno di recuperare la lupara del nonno o quella di qualche vicino di casa meridionale che si aggira per il paese in coppola, baffetti e gillet . Se siete meridionali e andate in giro in coppola, baffetti e gillet, credo non ci siano problemi di sorta: mai visto zombie a Palermo. Mirate sempre alla testa. E’ il loro punto debole. Alternativa: fategli ascoltare l’ultimo cd di Justin Bieber. Avvertenza: più gli piace il cd, meno danni gli fate se mirate alla testa.
10. Evitate i posti sicuri. Tutti i protagonisti di un film zombie si nascondono in case con ante, tapparelle, cancellate e recinzioni fatte con i playmobil o che possono essere abbattute con un rutto, come con quelle dei tre porcellini e del lupo. Non ho capito bene il perchè, ma è un must. E se entrate in qualsiasi posto buio e silenzioso e non vedete nessuno, lo zombie apparirà all’improvviso facendo “bubusettete!” o qualcosa del genere.
Avvertenza: questo articolo prende in giro volutamente gli stereotipi del genere Zombie. Non ci sono intenti razzisti in quanto scritto, ma solo la volontà di prendere in giro la banalità e i luoghi comuni che stanno rendendo monotono un genere tanto affascinante.
tv
Senza troppi giri di parole: sono in disaccordo con il proliferare di reality show e la promozione esclusiva di personaggi che escono da questi programmi. Il programma dev’essere un mezzo, un’opportunità mentre ora, soprattutto in Italia, è la regola, l’unica. C’è da dire però che la trasmissione madre, X Factor, non è sbagliata nella sua idea ma nel suo sviluppo e post sviluppo. Le audizioni, l’unico momento che divoro con attenzione, sono un catalizzatore di emozione e talento; sia il talento da figuraccia, tanti son troppo convinti di quello che fanno e come lo fanno, sia il talento puro e/o grezzo che si trova in tanti personaggi.
Non è un voler denigrare l’Italia a tutti i costi ma la differenza di qualità pura, di potenza, di talento tra Italia e gli altri paesi che si trovano facilmente su youtube è netta e sincera. L’anno scorso ha trionfato Chiara Galiazzo, brava per l’amor di dio, una voce spettacolare, una tra le poche che possono competere con voci nere e caratteri profondi stranieri. Se però il post-sviluppo è affidarla nelle mani dei soliti “ghostwriter” che si affidano ancora al mito di Mogol, unico nel suo genere ma ormai sorpassato, la noia è assicurata. Pausini, Ramazzotti, Ferro, etcetc sono ancora su questa terra e ci auguriamo lo restino ancora a lungo, ma non abbiamo niente di diverso da offrire?
Quando invece scrivendo “X Factor 2013 audictions usa” ci imbattiamo in quelli che sono i loro protagonisti di quest’anno, lo stupore e le varie considerazioni “questo in finale ci arriva sicuro” si presentano quasi per ogni concorrente in gara che passa le selezioni. Carlos Guevara, Alex e Sierra, AkNu, Lillie McCloud, Rachel Potter e via dicendo nel nostro paese non avrebbero rivali. Siamo così inferiori? Forse, anche se ci sono un po’ di considerazioni da fare.
L’America (ma in UK non è molto diverso) nella sua plurità di razze, provenienze, etnie e culture di sicuro ha dalla sua un bagaglio di possibilità maggiore. Quando nel 2012 esce dalla Lousiana un ragazzo come Willie Jones, come ha detto un mio caro amico “quella è roba loro, c’è poco da fare”. Chris Rene nel 2011 invece ci fa vedere sia l’America magnanima che da una seconda chance a un uomo discretamente disperato ma ci da una prova dei quei limiti di formazione dei concorrenti che vi dicevo, tanto che il primo commento di youtube è “completely i’ve seen the new version of this song and ive probally listened to this version about 50 times and the new version 1 time”.
Seconda considerazione è che da noi ci si fa più problemi a presentarsi o lo si considera una perdita di tempo perché tanto passano solo i raccomandati. E ci sta. All’estero di sicuro ci credono di più a proporre qualcosa di alternativo. Qui le variazioni sono davvero pochissime. Il fatto che Ics, su cui c’è stato il grande lavoro di Morgan, sia arrivato in finale è sintomo di quanta pochezza era presente sul palco. Ma allo stesso bootcamp italiano concorrenti che sbagliano canzoni, concorrenti che non si sono preparati la notte, concorrenti che si fan prendere dal panico. Rassegnazione e poca voglia?
L’inglese e la sua padronanza, quasi perfetta, sono un obbligo per chi vuole davvero ambire a diventare una international star. E purtroppo gli italici su questo punto sono in difficoltà. Siamo uno dei paesi col peggior inglese della storia. Ma nell’arco di 20/30 anni le nuove generazioni saranno di sicuro più padrone del mezzo e forse si assisterà a quella svolta musicale in grado di farci eccellere anche in ambientazioni diverse dalla “Canzone”, che nient’altro è che una variazione italiana della musica pop. Deve restare un patrimonio da difendere ma non l’unica alternativa musicale italiana. Qualche candidato?
Una cosa che di sicuro non abbiamo da invidiare all’estero sono invece i giudici. Ventura a parte, gli altri, sia quest’anno che in passato, rappresentano quell’x factor che il programma va cercando. Il simpaticissimo Mika, star internazionale, a suo agio nella veste di giudice severo, l’ottimo e preparatissimo Elio e l’estroverso ma genialissimo Morgan sono un trio maravilla. Lo stesso Morgan è poi la prova tangibile di chi, pur avendo talento, è sempre stato snobbato (o quasi) grazie a una campagna pubblica denigratoria. E questo ci porta anche la quarta e ultima considerazione da fare: per migliorare chi canta c’è da migliorare chi ascolta.
Chiudete gli occhi e immaginate di vivere in un mondo civilizzato e al passo coi tempi. Fatto?(no, non sono Giovanni Muciaccia) Bene, adesso sottraete a ciò che avete pensato l’elettricità, la tv, la radio, lo scaldabagno e le automobili. No, non siete finiti in un’altra epoca, avete semplicemente ottenuto il significato della parola amish.
Negli ultimi tempi, il canale Real Time ha sfornato ogni tipo di programma: dalle donne che non sapevano di essere incinte alle malattie imbarazzanti, dalle torte a sette piani ai millemila programmi di cucina condotti da Alessandro Borghese (un gran figo, per carità, ma a furia di vederlo in tv il mio istinto omicida non ha fatto che aumentare). E poi, un giorno, in casa Real Time arriva un programma nuovo, intitolato “Breaking Amish: niente sarà più come prima”.
I protagonisti sono cinque, due ragazzi e tre ragazze, vestiti in dubbio stile bucolico ottocentesco, con tanto di cuffiette (per le donne) e camice dalle maniche corte ed esageratamente larghe (per gli uomini), che si spostano esclusivamente col carretto o qualunque altro mezzo trainato da cavalli. Cinque giovani appartenenti appunto alla comunità amish, una comunità dai princìpi religiosi estremamente rigidi, molto diffusa negli Stati Uniti, che comporta uno stile di vita rimasto indietro di un paio di secoli, dove ogni lusso è abolito a favore di uno stile di vita estremamente semplice e dedito al lavoro.
I cinque protagonisti (Abe, Rebecca, Jeremiah, Kate e Sabrina) decideranno di lasciarsi alle spalle le proprie radici per andare a vivere a New York, città degli eccessi, vista dagli amish come simbolo di peccato e corruzione delle anime. Lì, dopo aver provato la dura vita urbana, decideranno se tornare o meno alle loro famiglie, con la consapevolezza di poter essere respinti o, addirittura, banditi dalla comunità.
Il programma, attualmente in onda ogni mercoledì sera, ha subito suscitato la mia curiosità, tanto da commentare ogni settimana con due amiche ogni singolo particolare della puntata, ma è anche uno degli hashtag più popolari su Twitter, il che dimostra che questo stile di vita lontano anni luce dal nostro ha incuriosito in molti.
Per quanto mi riguarda, il mercoledì sera è diventato un appuntamento fisso, davanti alla tv. Tra la spavalderia di Jeremiah, che lo ha spinto a tatuarsi sull’avambraccio un simbolo in stile pubblicità della Simmenthal (quella di “oh mamma, mamma!”), la presenza saltuaria della sorella di Abe, identica in tutto e per tutto a Poldo, il divoratore di panini amico di Braccio di Ferro, e le continue sbronze di Kate e Sabrina, le risate non mancheranno! Tuttavia vi sono anche momenti (non si sa se del tutto autentici o no, considerando che è un programma tv) di serietà, dovuti a momenti di debolezza dei protagonisti, che li hanno spinti anche al dover ricorrere a soluzioni estreme per risolvere i loro problemi (vedi il problema ai denti di Rebecca, o la ricerca del padre di Sabrina).
Sono rimasta piacevolmente sorpresa dalla novità proposta da Real Time. Dopo tutti quei programmi sugli obesi, i matrimoni e le torte che il canale ha proposto a rotazione per anni, abbiamo finalmente la possibilità di affacciarci, con una certa vena di comicità, stupore e incredulità (basta vedere gli atteggiamenti dei protagonisti, o le cose che dicono!), su un mondo di cui raramente, se non addirittura mai, si sente parlare.
Quel che mi resta è solo un dubbio:
perché mai, in una scena al ristorante cinese, hanno inserito come canzone di sottofondo…”La Cucaracha”?
La pubblicità è l’anima del commercio. Senza non ci sarebbe nemmeno la TV, eppure…
eppure la maledici quando interrompe in maniera inopportuna un film proprio nel momento di suspance, oppure la accogli con sollievo perché ti permette di staccarti dal divano, raggiungere velocemente il bagno e ritornare in sala prima che lo spettacolo riprenda.
Alcune marche investono nella pubblicità una grandissima fetta del budget a loro disposizione. Non capita di rado che vengano ingaggiati attori famosi pagati profumatamente, ogni tanto lo spot viene girato da un regista famoso e molto spesso, soprattutto le compagnie telefoniche, organizzano la campagna pubblicitaria con lunghe serie interminabili di episodi che alla lunga ti fanno odiare il prodotto e pure chi lo pubblicizza. In realtà, la buona pubblicità, quella che ti entra nella testa, non deve necessariamente essere costosa e nemmeno prevedere l’utilizzo di star strapagate. Non è una questione di budget, è una questione di idee. E soprattutto, la pubblicità in sé non deve mai distogliere dal prodotto. Quante volte avete pensato: bella la pubblicità, ma di cosa parla?
Fatta questa premessa ecco 10 pubblicità che mi sono venute in mente che probabilmente non sono costate un granché e che altrettanto probabilmente ricorderò per tutta la vita. Ricordando pure il prodotto che pubblicizzano.
1) Pennello Cinghiale: Un vigile sta dirigendo il traffico, ma improvvisamente si crea un ingorgo. Un Tizio in bicicletta con alle spalle un enorme pennello sta creando scompiglio. Il vigile chiede conto del pennello. Il tizio in bicicletta dice: Eh devo dipingere una parete grande, mi serve un pennello grande. Il vigile pacifico risponde: Non le serve un pennello grande, le serve un grande pennello. Pennelli cinghiale.
2) Telefunken: Immagini stroboscopiche, l’alba dei televisori a colori, un uomo vestito con un abito di sartoria indossa un paio di occhiali da sole e dice: potevamo stupirvi con effetti speciali ma noi siamo scienza non fantascienza.
3) Alpitour: Pulmino arabo pieno zeppo di persone, in mezzo due turisti, una coppia visibilmente a disagio. Il conducente si gira e dice: Turisti fai da te? No Alpitour? AHI AHI AHI
4) Bistefani: Un uomo burbero e un pasticcere timido. Il pasticcere porta l’ultimo prodotto della ditta. Ne decanta le lodi. L’uomo burbero lo assaggia, è troppo buono, non si possono fare prodotti così buoni. Chi sono io, Babbo Natale? E improvvisamente un cappello rosso e una barba bianca compaiono sulla sua faccia. Il pasticcere timido sghignazza.
5) Girella Motta: Il golosastro perennemente a caccia degli indiani della tribù dei Girella: la morale è sempre quella, fai merenda con girella
6) Hurrà Saiwa: Un tipo stralunato, capelli sparati verso l’altro, faccia appuntita, occhiali spessi e sguardo poco intelligente. Una voce fuori campo decanta le lodi della merendina Hurrà: Io non ho mai provato Hurrà. Hurrà!
7)Lavazza: Una serie di spot con protagonista Nino Manfredi, una simpatica vecchina e Gegia. Il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?
8)CocaCola: Inizia una canzone dal ritmo natalizio, campanelle e ragazzi giovani con una candela in mano cantano tutti assieme. Sono seduti sul pendio di una collina, formano un albero di natale. Auguri CocaCola. Vorrei cantare insieme a voi in magica armonia…
9)Zucchetti: Un idraulico si affanna a chiudere le falle in una stanza, su ogni zampillo piazza un rubinetto. Alla fine l’acqua gli esce dalle orecchie e per chiuderla si afferra il naso tra pollice e indice e lo gira. Si chiama Zucchetti la libertà, di fare con l’acqua tutto ciò che ti va.
10)Barilla: finisce la giornata di scuola, piove, una bambina torna a casa tutta sola, in angolo a cercar riparo un micio inzuppato. Nel frattempo la mamma sta preparando il pranzo, arriva a casa il padre, sono preoccupati perché la bambina non è ancora arrivata a casa, ma per fortuna aprono la porta e lei è lì con il gattino. Dove c’è Barilla c’è casa.
Pubblicità economiche per lo più, pubblicità che sono sopravvissute ai loro protagonisti, forse anche al prodotto che pubblicizzavano. Non è una questione di soldi, è una questione di idee.
Se con molta facilità il titolo del post in questione ricorderà ben poco ai miei coetanei, farà certamente balenare un’infinità di ricordi ai più grandicelli. Difatti la serie tv “I ragazzi del muretto”, andata in onda su Rai Due dal 1991 al 1996, divenne presto un cult tra i giovani dell’epoca, prendendo egregiamente il posto del fratellino d’oltreoceano, “Beverly Hills 90210”.
“I ragazzi del muretto” racconta, nel corso delle sue tre stagioni, storie di ragazzi come noi, come è stato (o sarà) ognuno di noi. Come lo sono stata (e sono ancora) io.
Le storie dei protagonisti, spesso e volentieri raccontate nel loro storico punto di ritrovo, il muretto di Piazza Flaminia a Roma, riflettono i problemi tipici dei giovani: dal razzismo alla droga, dall’AIDS alle gravidanze indesiderate, fino ai problemi di tutti i giorni, i classici conflitti coi genitori e i professori.
Ciò che, a parer mio, rende tanto particolare questa serie tv, è proprio la spontaneità con cui i fatti di tutti i giorni si susseguono nelle vite dei protagonisti. Nonostante abbia vissuto i primi anni Novanta in fasce, rivedendo, a distanza di anni, questa serie tv, ho potuto constatare come in realtà non sia cambiato niente. Certo, oggi gli adolescenti telefonano dallo smartphone e non dalla cabina (anche perché sono sparite dalla circolazione!), non si portano in giro la radio ma usano l’ipod, per copiare durante i compiti in classe utilizzano internet invece de bigliettini… Differenze che fanno tutte parte del progresso tecnologico, d’accordo, ma i problemi di fondo son sempre gli stessi.
In qualunque epoca vi troviate, dovunque vi troviate, ci sarà sempre un Mitzi che, dall’alto dei suoi (!) 19 anni, verrà considerato l’adulto del gruppo; ci sarà sempre un Johnny che, nonostante le sue pessime battute di spirito, le sue citazioni sagge e l’aspetto bizzarro, sarà proprio l’amico su cui si può sempre contare; in qualunque gruppo troverete la coppia “litigarella” formata da Christian e Stefania, oppure l’ingenua Deborah, che crede ancora in Babbo Natale ed è innamorata persa di Luca Carboni. Modelli di giovani che tutti noi abbiamo incontrato o, perché no, abbiamo impersonato, e magari impersoniamo ancora adesso. Impossibile negare i miei anni dell’adolescenza passati ad ascoltare musica fino allo sfinimento, sognando il matrimonio con Billie Joe Armstrong, la mia storica cotta adolescenziale (…non me ne voglia Luca Carboni!), quando scrivevo sul diario il mio bisogno impellente di libertà, di avere più spazio di quanto i miei genitori non mi concedessero già. Perché ognuno di noi ha avuto questi momenti, nel corso della propria adolescenza.
Pertanto, tornando al titolo di questo post, come suggerisce la canzone degli Stadio presente nei titoli di coda di ogni puntata, si può parlare di una “generazione di fenomeni”? Magari questi ragazzi non saranno stati geni della scienza o futuri premi Nobel, ma sì, potranno sempre essere considerati dei fenomeni, in quanto si è fenomeni nella vita quando riesci a mettere da parte tutto, anche te stesso, in nome dell’amicizia. Perciò, nonostante sia passato tanto tempo, se vi ritrovate a credere ancora in questi ideali, la risposta è una sola, cari lettori: sì, siete dei fenomeni anche voi.
Per quel che riguarda la musica (e a dire il vero anche per la letteratura) sono tendenzialmente esterofilo. Non c’è un motivo preciso, almeno nulla di razionale a cui appigliarmi, e non è nemmeno un implicito giudizio di merito. Probabilmente il fatto che da piccolo non capissi una parola di quello che cantavano gli autori di lingua inglese mi permetteva di inventare testi a caso, seguendo le assonanze e il ritmo. Ci potevo mettere del mio, con le canzoni italiane no, non sono mai stato un amante degli strafalcioni rimati sulle melodie.
Come conseguenza di questa mia conclamata esterofilia non ho mai apprezzato il Festival di Sanremo. L’ho sempre trovata una kermesse pomposa, pachidermica, vecchia nel modo di proporre musica, vecchia nel modo di essere condotta, vecchia nel pubblico e spesso anche nei cantanti.
Da qualche anno a questa parte però si è assistito ad un fenomeno particolare. A Sanremo l’hanno fatta da padrone i giovani cantanti prodotti dai Talent Show televisivi. Talent che ovviamente esprimendo il “meglio” del panorama musicale italiano non seguo. Non ne ho il minimo interesse. Per dirvi quanto sia radicato all’interno della musica italiana potrei elencarvi brevemente le ultime cose che ho ascoltato in questa settimana: Daft Punk, Vampire Weekend, Primal Scream, Koop, Garbage e, oggi, Fleetwood Mac.
Perciò non credo di essere la persona più indicata a parlare di musica italiana e, in effetti, il mio discorso è un po’ più ampio e coinvolge il genere dei Talent Show musicali nella sua interezza, se vogliamo, li coinvolge in quanto fenomeno mondiale con un preciso scopo.
Le case discografiche si sono trovate a dover affrontare un nemico ben agguerrito. La pirateria, come Idra, ha molte teste e quando ne tagli una ne crescono altre tre. E’ un avversario molto difficile da afferrare, tipo un’anguilla che sguazza nel pantano di un fossato scuro e putrido. Pur dispiegando mezzi enormi, il risultato, in questo momento, pende ancora verso la musica gratuita. Ci sono degli esempi “virtuosi” ai quali, se volete, ci si può attaccare per affermare che alla lunga anche su internet tutta la musica verrà acquistata regolarmente, ma io sono diffidente e credo che questi esempi siano destinati a rimanere casi sporadici con una clientela percentualmente più bassa rispetto a chi la musica la ritiene un diritto da poter sfruttare gratuitamente.
E’ innegabile che la pirateria porti un danno economico alle case discografiche, se prima a comprare un CD erano in 10 ora quei dieci sono diventati 2 o 3, ma è altrettanto evidente che uno dei refrain utilizzati dalle suddette case discografiche per “sconsigliare” la pirateria – se la gente non compra più musica non ci saranno soldi per investire su giovani cantanti e band – sia leggermente forzato.
A prescindere dalle grandi etichette, ci sono state centinaia e migliaia di nuove proposte che hanno avuto più o meno fortuna. Non ho sottomano le percentuali, ma direi che non si dovrebbero discostare molto da quelle pre boom della pirateria. Gli emergenti, soprattutto all’estero a dire il vero, hanno trovato canali diversi per farsi sentire, spesso hanno abbracciato l’autopromozione, ancora più spesso è stata proprio la rete a fare da cassa di risonanza per l’ultimo fenomeno musicale. A lavoro pressoché fatto poi ci hanno pensato le grandi etichette a far fare il grande salto. Prima si potevano permettere di fare loro la selezione, pubblicando opere prime di cento artisti per poi appoggiarne con convinzione solo una percentuale. Non inizio nemmeno ad elencare tutti i CD di band e cantanti esordienti che ho regolarmente acquistato e che sono rimasti senza un seguito. E’ una questione di vendite, di introiti, di fatturato, di numeri in sostanza. E’ l’economia che muove questo settore, proprio come tutto il resto.
A me quindi sembra evidente che le case discografiche cerchino di puntare su prodotti sicuri, a volte preconfezionati, come molto spesso accade con le classiche boy band che hanno un pubblico predefinito, che magari vengono progettate a tavolino (stile Spice Girls) e che cercano di spremere fino a che l’immagine del prodotto e quella del pubblico non coincidono più. A quel punto si crea o si sposa la carriera di una altro prodotto e così via in eterno.
Questo schema ricorrente è riscontrabile anche in letteratura, ma li le cose sono un po’ diverse e non è il momento giusto di affrontarle ora.
I Talent hanno dunque alcune caratteristiche che li rendono perfettamente adatti alla situazione della musica attuale. Il vincitore di un talent viene spinto verso la vetta dal pubblico. Quando esce trionfante dalla finale ha già un seguito. Mamme simpatizzanti per uno che ha la faccia di un figlio che hanno o non hanno avuto, ragazzine adoranti, ragazzini che cercano un modello, amici, compaesani, aggiungete voi. Sono già un prodotto vendibile in un mercato ristretto. E’ su questo che le case discografiche puntano. Puntano su un cavallo vincente. Sanno che non dovranno spendere più di tanto in pubblicità perché l’ovazione del pubblico li ha già portati a fare pubblicità (vedi il caso di Chiara e la Tim). Sono già dei fenomeni del marketing in grado di vendere qualsiasi cosa. Poi, esaurita l’ondata di interesse, c’è comunque un talent pronto a sfornare un nuovo fenomeno di massa. La Ferreri è durata lo spazio di un respiro ed è stata sostituita da una Emma, da un Mengoni. Son tutti nomi che pure uno come me, uno che non guarda i Talent e non ascolta musica italiana non può non aver sentito nominare fino all’esaurimento.
La mia conclusione è una. Le case discografiche favoriscono il proliferare dei talent perché su una struttura relativamente economica possono creare fenomeni musicali da bruciare con estrema velocità. E si badi che il mio non è un giudizio sulla bravura o meno di questo o quel vincitore, è una constatazione molto amichevole del fatto che il filtro, in questo caso, lo fa la gente a casa, a proprie spese. E siccome a mandare sms per votare sono bravi soprattutto gli adolescenti che si consumano le dita e disintegrano ricariche, è anche normale che alla fine i prodotti che ne escono si assomiglino tutti un po’ e si rivolgano più o meno tutti alla stessa fetta di pubblico.
Quindi, a mio parere, i talent sono la risposta vendicativa delle case discografiche nei confronti di quelli che preferiscono scaricare gratuitamente la musica invece di pagarla. Sappiate che se avete appena scaricato da torrent l’ultimo album della vostra rockstar preferita è probabile che vi tocchino altri tre anni di Talent Show prodotti in serie che sfornano prodotti in serie. Tutto questo avrà fine solo quando il modello sarà talmente tanto usurato da non produrre più utili e, a quel punto, le case discografiche si dovranno inventare un nuova formula per navigare in un mercato in cui l’insidia della pirateria è, e sarà sempre, presente.
C’era sempre un cugino, un parente alla lontana, un amico che però tu non avevi mai visto che un weekend sì e uno no se ne partiva per Londra a far incetta di dischi, a stramazzare esanime sui divanetti di un club e poi tornava per raccontare fumose avventure alcoliche contornate da risse sfiorate e scopate in piedi nel bagno di un Pub.
Eravamo giovani, volevamo credere che ci fosse davvero un Eldorado e che fosse raggiungibile per ognuno di noi.
Poi, arrivò Mtv e una parte di quell’Eldorado si materializzo nei nostri salotti, nelle nostre camere fino a che gente come Martha Quinn, Davina McCall, Carolyn Lilipaly si stabilirono in pianta stabile nelle nostre vite quasi a diventare parenti acquisiti. Avevamo altro di cui parlare, ma soprattutto avevamo altro da vedere. Passare interminabili pomeriggi invernali davanti alla TV e veder scorrere sullo schermo tutta una serie di video musicali era diventato uno sport. Ricordo con precisione che mi capitava di sentire al telefono la fidanzatina dell’epoca e di chiederle se avesse visto questo o quel video nuovo che avevano messo in rotazione. Era ovunque intorno a noi. Il mondo parlava della generazione Mtv e noi ne eravamo entrati a far parte. Ci stavamo costruendo un castello di sogni pop e rock senza pensare che forse, quel castello poteva pure crollare da un momento all’altro.
I VJ (Video Jockey, neologismo coniato dalla trasposizione dei Disc Jockey in TV) parlavano un inglese stretto e veloce, mitragliato a raffica attraverso gli altoparlanti della TV, provavo a seguirlo, stavo ore ed ore a cercare di calibrare il mio orecchio con le parole che provenivano dall’etere, ma le poche ore di inglese a scuola parevano non servire.
Seguire mezz’ora di trasmissione condotta da “Cat” Deeley (a proposito “Cat” dove sei finita? Perché hai smesso di popolare i miei sogni di adolescente?) mi produceva un mal di testa pauroso, ma la soddisfazione di riuscire a carpire anche solo una frase di senso compiuto da tutto quel marasma di suoni era impagabile.
Per quelli che erano adolescenti in quel periodo, seguire quotidianamente Ray Cokes e Paul King era un obbligo morale, una sorta di disobbedienza civile nei confronti di chi non poteva capire cosa significasse essere adolescente…in pratica tutti quelli che avessero più di 17/18 anni.
Poi è successo qualcosa che ha rotto l’incantesimo. Alle trasmissioni in lingua originale si sono inframmezzati programmi condotti da VJ italiani. Non voglio nemmeno discutere il valore dei VJ italiani in relazione alla loro controparte madrelingua inglese, non mi compete. Ma all’iniziale e quasi sotto silenzio inserimento di spazi localizzati in lingua italiana ne è seguita una vera e propria colonizzazione. Mtv Europe era destinata a diventare Mtv Italia. Con tutto quello che comportava. Basta VJ dalla parlantina svelta che mi insegnavano il ritmo di una lingua che faticavo ad apprendere, basta spaccati su realtà completamente distanti dalla nostra e basta alla sensazione di far parte di un circolo segreto. Ora pure i miei nonni riuscivano a capire quello che dicevano i VJ annunciando un video e il fatto che la musica, almeno in un primo momento, fosse rimasta la stessa, non aiutava ad indorare la pillola.
Mtv, con la smania di entrare a forza in una nuova fetta di mercato aveva scelto di provincializzarsi. Era lei che si era piegata a noi, non viceversa. Non c’era più il gusto della scoperta, non c’era più un Eldorado da visitare, non c’era più quella finestra che dava sul mondo e che ti faceva sognare che un giorno te ne saresti andato via. Ora, quella finestra, dava dentro casa. E dentro casa già ci stavi.
Avrei preferito che Mtv avesse mantenuto lo spirito originale, che ci facesse sudare per capire cosa stava dicendo. Ed invece ha iniziato a darci la pappa pronta.
Ho sempre pensato che anche questo passaggio all’italiano abbia contributo ad indebolire la specie.
Improvvisamente, arrivato al canale 52, mi sono imbattuto su un tizio che, probabilmente a digiuno da un paio di mesi, stava cercando di decostruire un Hamburger dalle proporzioni gigantesche tirato su proprio come fosse un palazzo di cinque piani, fondamenta e bandierina sul tetto incluse.
Quell’uomo, prontamente diventato un mio idolo, era Adam Richman, il programma era Man Vs. Food e il canale digitale contro il quale avevo impattato era DMAX.
Da quel momento DMAX è diventato uno dei 10 canali del digitale terrestre che guardo con più frequenza. Il motivo principale è una certa varietà di contenuti. Se siete appassionati di avventura c’è il programma che fa per voi (Bear Grylls: L’ultimo sopravvissuto), se vi piace la cucina ecco che oltre alle ingozzate portentose del buon Adam, potete trovare esperimenti di cucina molecolare (Cucina esplosiva), schifezze culinarie (Orrori da Gustare).
Se la vostra passione è la velocità, ecco i due Top Gear, quello originale inglese e la fotocopia americana. E siamo ancora nell’ambito dei programmi che definirei normali. Poi c’è quello che vi fa vedere come si lavora in un aeroporto in Australia, quelli che vi mostrano come si costruiscono le cose, la coppia che in viaggio di nozze ci va nella giungla e mangia serpenti e insetti, e come non citare “Indagini d’alta quota” che vi narra dei peggiori disastri aerei? In pratica, se avete una passione assurda che non confessate nemmeno a voi stessi su DMAX probabilmente c’è il programma che fa per voi.
C’è davvero di tutto e la maggior parte delle persone che conosco guardano DMAX perché, dicono, se proprio devo guardare la TV (e qui vorrei sapere perché lo trovano un obbligo) almeno che guardi qualcosa ci istruttivo.
Il punto è che DMAX vi da l’illusione di imparare qualcosa, vi mostra come funzionano le professioni, vi suggerisce i modi migliori per uccidere e arrostire un’iguana, vi fa vedere quale sarà la vostra prossima auto e di qualsiasi oggetto avete in casa vi dice chiaramente passo dopo passo come l’hanno costruito. Ma in realtà, quello che succede è che DMAX vi riempie un vuoto. Potete sintonizzarvi sul 52 e metterlo come sottofondo della vostra vita. Il tempo scorre su DMAX che è un piacere, vi fate inondare di informazioni che, non potendo replicare, entrano da un orecchio e escono dall’alto. Confucio diceva “Dimmi e io dimentico. Mostrami e io ricordo. Fammi fare e io imparo.” A noi su DMAX manca l’ultima parte, ma è evidente che non si può chiedere allo spettatore di uscire in strada, trovarsi un fast food, ordinare quattro chili di Hamburger e patatine e dire addio al proprio fegato.
DMAX non insegna, al massimo vi può fornire qualche nozione utile a riempire il cruciverba in prima pagina della settimana enigmistica, ma è dannoso come qualsiasi altro canale televisivo, anzi, come qualsiasi stupefacente. Vi rincoglionisce, se non state attenti. A me è successo, finivo le serate a guardare due tizi che compravano le valigie smarrite negli aeroporti o a guardare dei milanesi che si facevano tatuare cinghiali sulla pancia. Eppure, ora, non ho idea di come fare un tatuaggio, non ho nessuna nuova facoltà, non ho maturato nessun superpotere, sono lo stesso di prima con in più, sul groppone, qualche centinaio di ore di TV che mi hanno fumato due terzi delle mie cellule celebrali. Che poi ti trovi a scrive qualcosa su DMAX a della gente a cui non gliene può fregare di meno.
Una televisione diversa dal normale. Non programmi eccessivamente culturali oppure film ‘impegnati’ tratti da retrospettive mitteleuropee di cui ignoriamo l’esistenza. Bene programmi come ‘Gazebo’ (di cui ho già trattato precedentemente) o come ‘Le Iene’, spacciati come semplice intrattenimento ma ormai diventati programmi di approfondimento su temi quali politica o droga.
Tutto bene, fin qui. Ma sento il bisogno di vedere altro. Di sentire altro. Ma proprio a livello di musica, semplicemente. Nell’ultimo biennio siamo stati bersagliati da ogni genere di reality-show: dai più vecchi Grande Fratello e L’Isola dei Famosi siamo arrivati a MasterChef (con i suoi giudici ospiti di qualsiasi tipo di trasmissione e a qualsiasi orario su qualsiasi tv, roba da rivoltare lo stomaco) e ad X-Factor ed Amici, presunti ‘talent’ dai quali vengono letteralmente trascinati sotto i riflettori cantanti che fino al mese prima della messa in onda avevano difficoltà a trovare lavoro e tiravano a campare.
Sono stanco di questa invasione. Lo dico apertamente. In due anni siamo passati da Brand:New ad X-Factor. Era il 10 gennaio 2011, quando sul bouquet di SKY scompariva Mtv Brand:New per far spazio ad uno scialbo Mtv Rocks. Da quel giorno, almeno per me, non è stato più lo stesso. Amavo la musica ed i video trasmessi da quel canale, che oggi fanno parte della mia personale conoscenza musicale. Ma soprattutto quel Brand:New, inteso come programma vero e proprio, condotto da Massimo Coppola: storie più o meno vere, piccoli spaccati di vita normalissima intervallati da video musicali, di nicchia, di artisti alternativi o indie. E pensare che ho anche il libro con i testi del programma, adatti per quei 5 minuti di lettura veloce che ogni tanto fanno capolino durante la giornata. E’ passato un biennio, ed ora dobbiamo fare i conti con X-Factor e The Voice (che peraltro fanno a gara nello scegliere, e scongelare, i giudici musicali). Come siamo caduti in basso. Ridatemi Brand:New.
PS: Ora però torno all’ascolto dell’ultimo album di James Blake, uno che su Brand:New avrebbe spopolato eccome.
Il circo mediatico. Quello sommerso, quello che non si vede. D’altronde, davanti al televisore si riesce a vedere solo una minima parte di quello che accade: il microfono, l’intervistatore, l’intervistato e alle loro spalle immagini di contorno.
Parto da questo spunto e prendo come esempio la trasmissione di Raitre “Gazebo”, che ogni domenica sera propone una visione alternativa dei fatti che riguardano la politica italiana. Tutto quello che “non” è notizia, ma che è di “contorno” a quest’ultima: che possa essere un dettaglio dell’ambientazione (l’episodio dei panini all’incontro di Grillo con i suoi parlamentari è da rivedere al più presto), oppure un commento da parte dei presenti come Marzio Brega, illustre quirinalista del CorSera, nei confronti di Vito Crimi del M5S (anch’esso da rivedere).
Mettendo da parte questi temi politici, mi era venuta in mente l’idea di un “Gazebo” in salsa pallonara. L’ultimo weekend ha messo in mostra in ordine: polemiche, errori arbitrali, ‘vaffa’ rivolti più o meno a chiunque. Non il meglio, insomma. Senza scomodare paragoni con altri modelli di calcio, perchè se si guarda sempre agli altri si finisce per dimenticare i problemi che ci sono all’interno, tanto per dirne uno, i cori razzisti e beceri dei quale faremmo volentieri a meno.
Dicevo, un “Gazebo” calcistico, una provocazione. Qualcosa sui retroscena della Serie A: dai giocatori agli allenatori, dai dirigenti ai semplici tifosi. “Mai dire Gol”, con gli errori dei giornalisti, ci provava. Ma erano altri tempi, era un altro calcio. Più vado avanti, però, e più mi accorgo che il “Gazebo” esiste già: abbiamo le telecamere negli spogliatoi che ci fanno vedere i giocatori mentre si preparano, abbiamo le esigenze televisive ed i lunch-match, il week-end lungo che inizia il venerdì e finisce al lunedì, senza dimenticare le odiose dietrologie del “campionato venduto” e degli “arbitri complottisti” che peraltro non mi sono mai piaciute.
A quel punto, cosa resterebbe? Il “Gazebo” calcistico metterebbe in mostra il “contorno”: tra polemiche, errori arbitrali, i ‘vaffa’ dei giocatori (e certe volte anche dei presidenti) spunterebbero i gol. Semplicemente i gol. L’essenza del calcio, il gesto più importante, classificato come evento secondario rispetto al gesto eclatante che fa più notizia ma che, sportivamente, non ha senso d’esistere. Da anni c’è qualcosa che non va nel circo mediatico del pallone, ce ne siamo accorti tutti ma nessuno muove un dito. La fine del tunnel, o del “Gazebo” pallonaro, è ancora lontana.