Paratesto:
In quel gomitolo ingarbugliato che c’è in copertina io c’ho trovato almeno due o tre spunti buoni per dire: questo libro lo leggo perché mi sento che c’è qualcosa, al suo interno, che fa per me. Il primo spunto me l’ha dato il vedere il nome di Borges. Borges per me è un amo al quale non posso non abboccare. Secondo spunto, la bocca. La bocca che rappresenta la narrazione, il raccontare. E io adoro quando mi raccontano qualcosa e non sopporto quando mi dicono qualcosa.
Testo:
Un domestico ispano filippino che si chiama Felipe, che crede di essere una donna, che è in prigione per aver portato a spasso per Parigi il cadavere di uno dei suoi datori di lavoro dentro un cassonetti della differenziata. Ma quell’uomo accartocciato nel cassonetto chi l’ha ucciso?
Chi parla è Felipe. Parla in un registratore, cerca di spiegare al proprio avvocato come sono andate le cose. Che lui, è innocente, certo, ha spostato un cadavere nel giorno più lungo dell’anno per le strade di Parigi, ma quello è tutto ciò di cui lo si può incolpare, perché il signor Charles non l’ha ucciso lui, l’ha trovato riverso sul tappeto privo di vita.
“Passaparola”, che poi è il motivo per cui il nostro Felipe è arrivato a lavorare per il morto, è puro racconto. Persi nelle parole di Felipe veniamo cullati dal ritmo della sua voce e calati lentamente nella trama. E senza quasi accorgersene iniziamo a provare un’enorme simpatia per Felipe, per ciò che rappresenta, per la sua voglia di spiegare, di non lasciare nulla al caso, per quel costante ribadire che era la prima volta che faceva qualcosa senza che nessuno glielo ordinasse. Proviamo simpatia per lui, per quel suo credersi donna, per la sua sete di conoscenza, il voler emanciparsi, perché portare un uomo grande e grosso in giro per Parigi durante il festival della musica non deve essere una cosa da poco. Eppoi, proviamo simpatia per lui perché sa raccontare, ci sa tenere sul filo, aggiungendo sempre qualcosa di nuovo al filo della discussione, qualche indizio qua e là, qualche ricordo preso dal suo passato, qualche speranza per la propria vita affettiva. Chiunque sia il colpevole.
Leggendo questo libro ho avuto modo di pensare ad alcune cose. Prima, nel mondo dell’editoria ogni anno escono sessantamila titoli. Seconda. Simon Lane non è mai stato pubblicato in Italia. Conclusione. O questi sesssantamila titoli sono tremendamente migliori di “Passaparola” da relegarlo alla posizione sessantamila e uno. Oppure c’è un po’ di miopia. E se qualcuno obietterà che il pubblico che legge ha gusti vari e di conseguenza sessantamila titoli ci stanno tutti, mi chiedo quanto siano felici ora quei lettori che aspettavano il sessantamillesimo e un libro.
Coordinate:
Ottolibri è una casa editrice che non conoscevo. Pubblicano pochi titoli con l’obbiettivo di fare alle stampe solo libri meritevoli. Le loro uscite sono principalmente in Ebook, ma alcuni titoli hanno anche un’edizione cartacea in numero limitato. Il loro motto “facciamo poche storie, ma buone” credo riassuma perfettamente il loro piano editoriale.
L’autore di questo libro è sconosciuto al grande pubblico e anche a me. Fortuatamente la nota biografica sul sito di Ottolibri è curata molto bene, per cui attingo da loro per fornirvi un ritratto di chi sia l’uomo dietro al libro.
SIMON LANE nasce nel 1957 in Inghilterra. Artista poliedrico, scrittore, saggista, giornalista, fa una vita girovaga e leggendaria tra Stati Uniti ed Europa. Nel 1992 pubblica in Francia Le Veilleur (Ch. Bourgois, Parigi), cui seguono i romanzi Still-life with Books, Fear (Bridge Works Publishing, New York, 1993 e 1998), Twist (Abingdon Square Publishing, New York, 2010), e l’antologia The Real Illusion, (New York, 2009).
Nel 2001 si trasferisce a Rio de Janeiro, lavorando come corrispondente. Scompare prematuramente nel 2012.
La traduzione è opera di Cristina Ingiardi, che purtoppo non conosco di persona, ma voglio comunque citare e ringraziare per aver reso questo racconto di una fluidità memorabile. Farsi prendere dalla spire della narrazione è un attimo. Un attimo per cui va ringraziato anche chi dall’inglese ce lo ha portato in italiano.