A trentadue anni, un calciatore professionista è all’apice della propria carriera. La sua parabola è nel punto ascendente, tocca il vertice più alto, in attesa di una discesa che può essere prolungata o immediata. Il fisico non è quello più di un ventenne, ma l’uomo è maturato, e questa maturazione ha effetti sull’atleta. C’è chi decide di ritirarsi nel momento di massimo splendore (Platini e Zidane), restando nell’immaginario collettivo giocatori formidabili; la maggior parte, però, vuole continuare a giocare fino a quando il fisico supporterà la testa. L’ultimo Del Piero non è paragonabile a quel calciatore ammirato negli anni Duemila, Totti, pur restando incredibilmente forte, non può essere ovviamente quello di qualche anno fa.
C’è chi è finito da tempo. Pato è un calciatore che continua sì a calcare i campi di gioco in Brasile, ma ormai è la pallida figura di quello che sarebbe potuto essere: uno dei migliori al mondo. E’ il giocatore più giovane a segnare in una competizione ufficiale Fifa, prendendo il posto di un certo Pelè, il dio del calcio assieme a Maradona. Pato è un fenomeno, e lo dimostra al suo arrivo in Italia.
Qui, però, iniziano i guai: lavora male sul suo fisico, non riesce più a sopportare quegli incredibili cambi di direzione in velocità che lo rendevano praticamente unico. A ventiquattro anni è finito: è in Brasile, gioca ancora, ma quelli che sarebbero potuti essere i suoi Mondiali, li vedrà davanti a una televisione.
Peggio è andata ad Adriano. L’imperatore. Lui non ha cancellato Pelé dalla storia, ma alla prima apparizione in Europa ha segnato al Bernabeu, uno degli stadi più impregnati di storia nel mondo. Gioca nell’Inter, ma viene considerato troppo acerbo per poter essere schierato titolare. Viene mandato in prestito alla Fiorentina, dove i suoi gol non bastano per la salvezza, poi va al Parma. Qui incontra un allenatore che crede fermamente in lui, Prandelli, e un compagno di squadra, nessuno lo può sapere allora, accomunato dallo stesso destino: Mutu. I due compongono una coppa eccezionale: Adriano è una forza della natura, un centravanti ai limiti della immarcabilità: tecnica brasiliana e potenza mastodontica.
L’Inter lo riprende. Ha 22 anni. Il calcio è pronto a inchinarsi ai suoi piedi, è una fabbrica che ha sempre bisogno di nuovi campioni con cui nutrire le proprie fantasie. A inizio agosto di quel 2004, però, succede qualcosa. Una chiamata da Rio lo scuote. E’ morto suo padre.
Da quel momento, Adriano non sarà più lo stesso. E’ l’evento che cambia la sua vita. Non è più un atleta, è un ragazzo che soffre, un ragazzo che si trova lontano da dove vorrebbe essere e che non trova più niente nel dover rincorrere e calciare un pallone. La sua società lo protegge, lo coccola, continua a dargli fiducia, perché sa di avere in casa un talento formidabile. Funziona. Per due anni.
Adriano è talmente forte che riesce in qualche modo a nascondere i propri problemi. E’ depresso, trova sollievo rifugiandosi tra i bicchieri e le gonne. Non può durare molto. Infatti, si pensa di farlo ritornare in Brasile, al San Paolo, per riavvicinarlo a casa sua. Funziona. A giugno del 2008, dopo sei mesi, ritorna a Milano dove lo aspetta un nuovo allenatore, un tale Mourinho, che vuole rilanciarlo definitivamente. Ha appena 26 anni, ma la testa ormai ha smesso.
Qualche buona apparizione gli consentono di ritornare a indossare la maglia verdeoro. Aprile 2009, Adriano decide di restare in Brasile, non vuole ritornare: “Per ora smetto, ho perso la felicità di giocare. Non so ancora se starò per uno, due o tre mesi senza giocare. Ho intenzione di ripensare alla mia carriera”.
E la ricomincia nell’estate 2009 con il Flamengo. Fa bene, sente di essersi ritrovato e vuole prendersi la rivincita là dove i suoi problemi sono nati: torna in Italia, alla Roma. Non può funzionare, e infatti non funziona. Ancora via, ancora ritorno in Brasile. Ormai, però, Adriano è un calciatore finito.
C’è qualcosa in lui che attira: sa fare una cosa, giocare a calcio, e in quello prova a scacciare i propri fantasmi. Ma non ci riesce, perché i guai andrebbero affrontati, non nascosti dietro un pallone. E infatti, la sua carriera continua a essere un mordi e fuggi: un contratto, qualche apparizione, ritardo agli allenamenti, mancata presenza, l’alcool, le donne, la rottura del contratto. Un circolo vizioso. Che qualcuno prima o poi interromperà per curare l’uomo.
Adriano e Pato sarebbero stati i protagonisti di innumerevoli Derby e avrebbero formato la coppia d’attacco del Brasile. Il talento non basta. E’ un dono della natura che va contiuamente coltivato, ma la testa è quanto di più importante ci sia.