Nel mondo in cui viviamo noi, il Déjà vu invece è talmente comune da aver superato il senso di noia. Non ci smuove più. Sembriamo mosche appoggiate su un muro in una calda giornata afosa d’agosto. In particolar modo, per quel che mi riguarda, provo un Déjà vu ogni volta che qualcuno intervista un addetto ai lavori del mondo del calcio. Poi, se volete, si può ampliare la questione ad un ambito più esteso come quello della politica italiana o volendo andare anche oltre, alle interviste carpite in fretta e furia dagli inviati televisivi per le italiche strade. Il concetto non cambia, va solo esteso.
Ma torniamo al calcio e alla sua irresistibile varietà di parole e linguaggi.
Ogni partita è condita da interviste di contorno e da conferenze stampa rituali che, in quanto rito obbligato, hanno assunto dei toni ripetitivi quasi comici. Lo scambio domanda/risposta è diventato esso stesso un rituale, al limite della danza tribale attorno al fuoco. Io giornalista chiedo e tu addetto al lavoro mi rispondi. Magari formulo la domanda in modo un po’ diverso, magari la risposta è formulata in maniera estrosa, ma i concetti di base sono gli stessi e non cambiano. Stoccata e parata, stoccata e parata.
Spesso ho sentito persone comuni che hanno, per brevi momenti, abitato il mio stesso spazio vitale, dire che non ci si può aspettare dai giocatori e dagli ex giocatori una grande proprietà di linguaggio. Posso pure essere d’accordo, anche se non lo sono, ma il concetto secondo me è un altro. Magari non riesco ad usare il condizionale, ma a dire qualcosa che penso veramente ce la posso pure fare, no? Non serve citare Dante per esprimersi, anche perché quando lo si cita si prende la citazione come una dichiarazione di guerra.
Ed infatti, le interviste si snodano attraverso una serpentina di luoghi comuni, di attestati di stima per allenatori, colleghi, avversari, compagni di squadra, magazzinieri e via discorrendo. E non è che il calcio abbia bisogno di ulteriori polemiche, per cui non voglio insinuare che le interviste migliori siano quelli in cui un giocatore manda a quel paese l’altro, ma, insomma, se fosse un contenuto originale mi andrebbe bene pure quello.
Prendete un calciatore qualsiasi che nell’arco della sua carriera abbia voluto o sia stato costretto a cambiare squadra una o più volte. Se poteste seguire le sue tappe attraverso le comparsate televisive vi rendereste conto che le sue parole sono perfettamente trasportabili da una squadra all’altra. Cambiano solo i nomi citati (ma non necessariamente) e le città di sfondo, può essere pure che cambino i giornalisti (ma visto il ricambio che c’è in Italia in tutti i settori lo trovo poco probabile), ma i concetti di base sono sempre quei due o tre ricombinati. Formulati in modo da non fare troppi danni. Già, perché appena dai un minimo appiglio succede che si scatena il pandemonio e ci troviamo sommersi da due metri di polemiche.
Quindi, è inevitabile che se chiedete ad un giocatore se gli dispiaccia giocare poco lui vi risponda che a tutti i giocatori dispiace giocare poco, ma che lui rispetta le scelte del mister.
E’ normale che chiedendo ad un allenatore se gli piacerebbe allenare Ibraimovich lui vi risponda che a qualsiasi allenatore piacerebbe allenarlo, ma che lui è contento dei giocatori che ha che sono dei campioni e poi comunque del mercato ne parla la società.
Son tutti più meno così gli scambi. Poi ci si può ricamare sopra, fare un titolone ad effetto estrapolando poche parole da tutto il contesto, ma alla fine, lo si sa, quello che c’è scritto nel titolo raramente compare nel testo dell’articolo. E vale pure per i servizi in TV, cambia solo il mezzo, ma non il messaggio.
Inesistente.
Spesso poi il dialogo tra intervistatore e intervistato prevede un terzo membro non presente. Succede infatti che in alcuni casi venga chiesto all’intervistato un parere su quanto detto da un altro collega. Spesso la citazione incriminata non è neppure di sicura attribuzione, ma a molti non interessa. L’intervistato, se è in forma, svicola. La frase “Non sono mica un Pirla” di Mourinho secondo me è in predicato di diventare il mantra che ogni allenatore e ogni giocatore recita mentalmente prima di aprire bocca davanti ad un microfono.
Forse, e lo dico da esterno, per far dire ad un addetto ai lavori una cosa originale, bisognerebbe avere il coraggio di fare domande originali. Ma temo che per arrivare a quel punto ci siano anni luce da percorrere. Perché in parte non siamo educati a gestire le opinioni degli altri e perché proviamo in tutti i modi a seminare tempesta, perché è con la tempesta che si nutre un certo pubblico, che poi probabilmente è anche quello che foraggia i giornali. E’ una semplice questione di domanda e di offerta e noi dovremmo essere in grado di educare il pubblico per fare cambiare il tipo di domanda. E non ce l’ho mica con i giornalisti, per carità, è proprio il sistema di cose che non riesce ad andarmi giù.
Ci si nutre di polemiche per cui le cerchiamo a più non posso. E almeno fossero polemiche costruttive, niente, non c’è verso.
Ops, rischio di farmi etichettare come moralista, quando, io per primo, ho sguazzato in un clima di insulti gratuiti frequentando forum (e sui forum sarebbe necessario aprire un capitolo a parte, ma non ora). Oppure, oppure ci sono parecchie altre etichette che mi si possono affibbiare per ridurre il già minimo impatto delle mie parole. Amen, che vi posso dire. Siamo qui per parlarne, per discuterne, mica penso di avere la ragione dalla mia parte. Se a voi va bene così sono contento per voi, a me non va, non mi piace. Non mi piace dover pensare in continuazione che non viviamo in un paese civile, non mi piace dover pensare che le risorse che il nostro popolo ha vengono sottoutilizzate, non mi piace dover pensare che siamo un popolo che vive di Déjà vu perché non riusciamo capire altro.