E anche fra quelle statue, simboli ambivalenti di arte luminosa e buia morte, si capiva che Firenze non era una città buona, non lo era mai stata. Firenze era la città degli intrighi e dei misteri, degli eccessi e dell’ingordigia, dei complotti e delle vendette, di Machiavelli e di Savonarola, del Mostro dei giornali e dei tanti omicidi irrisolti.
I buoni, a Firenze, non si chiamavano buoni, si chiamavano bischeri. Che voleva dire sciocchi, stolti. E non era un complimento.
La bontà, a Firenze, non era una cosa di cui vantarsi, un complimento da incassare.
Era un debito da pagare.
Effettivamente, al di là della letteratura, se si pensa a Firenze viene in mente l’Arno, vengono in mente gli Uffizi, viene in mente l’arte. Al più, orientandosi su altri generi, si può virare verso la gustosa bistecca, l’accento aspirato o la squadra dalla maglia viola.
È difficile invece impiantare in un comune di appena 100 km quadrati e circa 400.000 abitanti un romanzo noir credibile e in grado di trattenere il lettore per 400 pagine. Il noir urbano richiede atmosfere e luoghi cupi, ma non basta: ha bisogno che la città diventi personaggio fra i personaggi, con le strade che si trasformano da luoghi di spostamento di auto e mezzi pubblici ad arterie pulsanti un sangue in grado di spandere ovunque l’odore fetido di ambienti marci. La notte, nei romanzi di questo genere, smette di essere tempo e diviene anch’esso luogo: luogo di incubi e riflessioni, che si allunga indefinitamente fino a inglobare le prime luci dell’alba.
Gigi Paoli, con il suo Respiro delle anime, riesce a toccare tutti questi aspetti ma, al contempo, consegnarci un testo attraversato da una sana ironia. E l’ironia è presente, oltre che nel protagonista, un giornalista di cronaca giudiziaria divorziato e con un rapporto problematico con la figlia alle soglie dell’adolescenza, anche nella narrazione. Questo elemento, vero punto di forza di un romanzo appartenente a un genere che punta moltissimo sul plot, sui colpi di scena, sull’intrico e sul mistero, è ciò che dà spessore al tutto. Saper dosare inquietudine, atmosfere e ironia è tutt’altro che semplice, e il rischio è cadere nella sua controparte mediocre, la farsa o il grottesco involontario.
È infatti tutta una questione di tempismo: immaginate di essere sul luogo dell’incidente, con uno scienziato americano morto ammazzato, gambe e braccia spezzate e contorte in modo innaturale, e un certo punto uno dei personaggi fa una battuta che fa a pezzi tutta l’atmosfera. È finita: il romanzo perde di credibilità, il lettore si trova catapultato dal luogo del delitto alla sua stanza, incredulo per ciò che ha appena letto, e si ritrova a chiedersi perché sta perdendo tempo con quel libro.
Questa cosa nel Respiro delle anime non accade: l’ironia, dosata da Paoli con l’accortezza di un maestro vetraio, dona al tutto una leggerezza piacevole, soprattutto quando un banale incidente stradale diventa il centro di un intrigo internazionale, con tanto agenti segreti e droghe killer.
È interessante inoltre entrare nei dettagli della quotidianità di un giornalista d’inchiesta: laddove spesso i polizieschi vedono come protagonisti, appunto, detective e polizia, stavolta il centro della scena è occupato da Carlo Alberto Marchi, costretto a sbattersi fra aule di tribunale, procura e redazione di giornale. E sempre interessante è osservare il cambio di punto di vista, che coinvolge anche un sovrintendente della polizia stradale e un pubblico ministero. La triplice prospettiva “riempie” il vuoto che la sola parte giornalistica avrebbe lasciato e ci fornisce una visione completa dell’indagine: quella del giornalista, del poliziotto, del magistrato.
C’è solo un punto non molto forte che ha il sapore di un vago deus ex machina, e che si ripete per ben due volte quando l’indagine sembra bloccarsi: la doppia scena con il senzatetto che, dietro piccolo compenso, fornisce due pezzi mancanti al puzzle che si va delineando. Tuttavia Paoli è stato così abile nel creare un background per il personaggio secondario da rendere il tutto abbastanza (avverbio molto pericoloso in questo caso) credibile. E dunque gli si perdona questa leggerezza, che altrimenti avrebbe rischiato di spezzare, di nuovo come un’ironia usata male, l’incantesimo, la suspension of disbelief di cui parlava Coleridge duecento anni fa precisi.